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Fedro rivisitato
Pubblicato ne lo Scorpione Letterario - Anno III - Nr. 6-7 / 2007 e in Pomezia - Notizie Anno 14 - (Nuova Serie) n. 3 - Marzo 2006 -
Note in margine a Fedro rivisitato (Bastogi Editrice, Foggia, 2004)
di Floriano Romboli
La poesia di Valeria Serofilli si distingue per il tratto colto e raffinato, per la fisionomia formale accurata eppur stilisticamente briosa, in forza dell’agilità e della freschezza di un discorso intellettuale che vivamente risente delle situazioni e delle esperienze concrete.
Ritengo che tale caratteristica sia agevolmente percepibile, addirittura come prima impressione di lettura.
So bene che fare riferimento alle “impressioni” può incontrare le riserve immediate e dure di chi, educato alle pretese scientifiche dei moderni orientamenti metodologici, predilige un approccio ai testi distaccato e tecnicistico; costui dimentica però che un maestro di equilibrio estetico e di rigore interpretativo come Francesco De Sanctis non esitava ad affermare che a suo parere “la scienza critica” si fonda sulla genuinità delle prime impressioni; si tratta infine di non limitarsi ad esse, bisogna ragionarle e problematizzarle, come lo studioso irpino, forte dell’abito teorico e sistematico ricavato dalla filosofia hegeliana, sapeva d’altronde fare con incisività inflessibile.
1. L’autrice moderna a proposito della poesia e delle sue finalità ha idee chiare e stimolanti. In un testo recente, compreso nella raccolta Tela di Erato (Sovera Editrice, Roma, 2002), infatti si legge:
“Colpi inferti dalla vita
puoi smussare con la tua rima,
per fare girare, con la parola,
la ruota come vuoi che vada;
è il barlume che ti vela
la realtà, poi la disvela
e come luccichio di cera,
luce leva e poi
rivela.”
(La poesia)
Il gioco linguistico-musicale delle sequenze allitteranti e antitetiche, talora complicate dall’enjambement, è indicativo di una “letterarietà”, che dal rapporto dialettico con la vita trae giustificazione e autentico significato.
Cultura è in fondo elaborazione etico-critica di momenti della vicenda individuale, impegno a superarne i limiti dell’occasionalità e della relatività inconfrontabili, allo scopo di generalizzarne e forse universalizzarne il valore; e sensibilità e vigile attenzione ai dati della quotidianità, e un’assidua curiosità culturale-storica per i messaggi di altri – magari anche molto lontani nel tempo – costituiscono aspetti convergenti e qualificanti della ricerca della Serofilli, determinandone l’animus spiccatamente dialogico, perché incline per interna coerenza a rapportarsi con le testimonianze di poeti, pittori, fotografi, musicisti.
Ogni strategia del confronto implica un interessante operazione bi-polare, perché si sostanzia della tensione ineludibile fra i testi di riferimento – auctoritates ideali e formali – e la nuova scrittura, difficilmente compatibile con le misure scolasticamente neutre della traduzione, che la poetessa, sempre ne la Tela di Erato, apertamente contesta anche in punto di teoria:
“Nelle scuole insegnano ancora
a fare la traduzione.
Ma se Callimaco scriveva in sandali
ed in toga, su tavoletta e a lume di lucerna,
come poss’io ricreare il suo
“qui e ora” tanto preteso,
e invano,
nella scuola?”
(Traduzione)
Rileggere equivale a ricreare e appunto creativa appare la rivisitazione che Valeria Serofilli dedica, peraltro selettivamente, al corpus favolistico di Fedro, il quale si era riallacciato al greco Esopo (VI sec. a. Cr. ), in un significativo rapporto attestante la continuità di un genere.
Fedro, nativo della Tracia o forse della Macedonia, schiavo e poi liberto di Augusto, ha lasciato cinque libri di favole, comprendenti 93 testi; è certo comunque che egli ne scrisse di più e sono senz’altro esistite sillogi più vaste, quale quella da cui l’umanista quattrocentesco Nicolò Perotti trasse le 32 fabulae novae, ormai universalmente considerate autentiche.
La favola è da sempre presente nella letteratura e già Esiodo ne Le opere e i giorni ne aveva accolto un exemplum raccontando la novella dello sparviero e dell’usignolo; e, con riferimento alla letteratura latina, Ennio nelle satire aveva narrato la favola dell’allodola e dei pulcini, per non dire di quel piccolo capolavoro che in Orazio (Sat. II, 6, vv. 78-117) è la storiella del topo di città e del topo di campagna.
Occorre aggiungere però che Fedro è l’unico autore latino che scriva esclusivamente dell’età imperiale come Seneca nella Consolatio ad Polybium (8,3), nell’atto di esortare il potente liberto di Claudio a confortare l’animo provato per la morte del fratello con la produzione di “fabellas quoque et aesopeos logos”, definisse questi ultimi “intemptatum romanis ingeniis opus”.
E’ poco probabile che il filosofo non conoscesse l’opera che Fedro andava componendo e che già in buona parte aveva pubblicato; si può piuttosto ipotizzare una profonda distanza sociale, una forte differenza di ceto oggettivamente penalizzante chi aveva sperimentato la schiavitù e la miseria e patito le conseguenze dell’ingiustizia e della persecuzione.
E un senso vivo della condizione servile, l’amarezza pessimistica che nasce dalla dolorosa constatazione personale dell’oppressione e della prepotenza abitualmente esercitate dagli honestiores ai danni degli humiliores il favolista latino trasfuse nel suo lavoro artistico-letterario.
La frequentazione scolastica suggerisce spunti familiari designanti il difficile, duro, a volte drammatico sistema di vita sotteso alle fabellae zoomorfiche: “Tunc fauce improba/latro incitatus iurgii causam intulit” (Allora il predone spinto dalla gola malvagia addusse un pretesto per litigare, I,1,vv.3-4), mentre non manca la correlativa triste presa d’atto della complice sciocchezza di chi nella società occupa i gradini medio-bassi, con il connesso biasimo della mediocrità morale degli svantaggiati e dei diseredati: “Tumens inani gragulus superbia/ pinnas, pavoni quae deciderant, sustulit, / seque ornavit. Deinde, comtemnes suos / immiscet se ut pavonum formoso gregi” (Un corvo gonfio di vacua superbia raccolse le penne che erano cadute a un pavone e se ne ornò. Poi, disprezzando i suoi, si mescola al branco splendido dei pavoni, I, 4,vv. 4-7). Dinanzi ai testi fedriani la Serofilli si applica a una ripresa esplicita, programmatica, meditata.
Leggiamo dal Prologo:
“Tramutato ho i senari in versi sciolti
con rima o no, molto più disinvolti
anche se servono, me l’auguro davvero,
anch’essi alla prudenza dar consiglio
anch’essi alla tristezza porre freno.
Chi disapprova al gioco stia
di questa mia esuberante fantasia!”
L’anafora (anche) evidenzia nella scrittrice moderna il disegno di una consapevole prosecuzione dell’antico discorso, mentre il lieve distacco e la struttura versoliberistica testimoniano l’intento di una rielaborazione autonoma e innovativa, condotta secondo il paradigma intellettualmente raffinato dell’aemulatio, del richiamo concorrenziale.
In altre parole il Fedro rivisitato partecipa di quel procedimento stilistico-culturale dell’allusività, carissimo al gusto umanistico.
Giorgio Pasquali in un saggio famoso ( cfr. Arte allusiva (1942), poi in Stravaganze quarte e supreme) nel contesto di penetranti puntualizzazioni distintive (“Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni non producono l’effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono”), ne ha fissato le caratteristiche sostanziali: “La presenza del moderno in contrasto con l’antico o dentro l’antico, e quindi una certa tensione che dà movimento all’opera senza spezzarne l’unità”.
2. Qual è pertanto il quid proprium della rivisitazione serofilliana?
La poetessa reinterpreta le fabulae di Fedro, scritte in un prevalente sermo familiaris e dominate dalla brevitas; e adotta la tecnica strutturale-compositiva della concentrazione ulteriore, dell’addensamento antinarrativo finalizzato all’enucleazione pronta e sicura della “morale” contenuta nel racconto:
“Spoglia la favola del suo animale
ed ecco balzar cruda la morale!”
La morale è cruda perché è netta, inequivoca.
Accanto alla contractio antinarrativa, coopera all’esplicitazione di essa un’articolata, precisa, a volte insistita e martellante griglia di valutazione etica (affidata ad aggettivi, verbi, avverbi), che assume, inquadra i fatti e fin dalle prime battute definisce il valore della vicenda:
“Intente le fauci potenti
allo sgorgar del rivo,
accusano dall’alto
chi s’abbevera passivo.
Diversamente posti
da contrari intenti mossi
diverse e opposte le sorti.
Cala l’accusa ingiusta
da gola spinta
e d’eco risposta giusta (…)
Ma dall’una all’altra sponda
lesta si sposta la menzogna
per farsi mero crimine
e vergogna”
(Falso pretesto)
La favola del lupo e dell’agnello ha davvero rilevanza esemplare e per il contenuto e per le particolarità formali, come ha acutamente notato Dino Carlesi nella prefazione al libro della Serofilli. Direi in aggiunta che il rifacimento seicentesco della medesima ad opera di Lafontaine ne conferma l’esemplarità: nella sua pagina (Fables, I, 10) il favolista francese fa ricorso alla tecnica opposta dell’amplificatio, innervata da un’attenzione scoperta a ben determinate figure della gerarchia sociale:
“Sire, répond l’Agneau, que votre Majesté / ne se métte pas en colère…”
Se l’individuazione della morale rappresenta lo scopo primario della riscrittura, una volta che il fabula docet è stato enucleato, viene poi affermato con l’energica convinzione messa in risalto dal punto esclamativo:
“E senza “vello”
di pavoni e cornacchie
divien zimbello!”
(La verità della cornacchia)
“Chi troppo vuole
e vuole roba d’altri
prenda a monito
per sé stesso
che all’ingordigia
s’aggiunge / l’esser fesso!”
(Il cane ingordo)
“Povero corvo
di parole e lusinghe ingannevoli
or men sazio e contento!”
(La volpe e il corvo)
Alla morale preposta (promitio) la Serofilli preferisce di gran lunga la morale posposta (epimitio); talvolta l’autrice sembra addirittura presupporre il testo fedriano, per completarlo diffondendosi nel commento moraleggiante (“Invito a cena: / furbo pretesto / per chi a tirarti / scherzo s’appresta (…) Leccando il vetro, / lo Scaltro s’aspetti / d’esser da esempio / a chi ha per denti / un lungo stecco!” (Pan per focaccia); tale modalità compositiva è ancora più evidente nella poesia Maternità, rielaborazione del fedriano Canis ad agnum (III, 15).
L’allusività della poetessa è attiva ad ampio spettro e conosce – a partire dal testo latino – esiti proiettivi (“Il più crudele degli affanni / ricordarsi è dei felici anni”, L’anfora, in un epimitio prolungato, largamente indipendente da Fedro, che ricorda Dante, Inf. V, vv. 121-123), nonché attualizzanti, come nel riferimento pirandelliano che conclude L’arco e l’anima: “A far carriola insegna / del resto Pirandello!”.
La riscrittura nel Fedro rivisitato tende spesso ad attenuare il tono malinconico dell’originale, grazie anche agli scatti di ironia riflessiva e di saggezza propositiva (“Ché se il tuo debol salto / uva non coglie né tocca, / ammetti il limite / e di non esser pronto / all’acino non dar colpa!”, Chi disprezza compra).
Dicevamo della predilezione dell’epimitio da parte della Serofilli. Essa lo approfondisce, ne ravviva e valorizza il significato attraverso l’impiego di una sintassi fortemente increspata a causa delle torsioni indotte dall’anastrofe, che contrastano palesemente con la leggerezza “cantante” del ritmo: tale pecularietà formale è coefficiente non secondario di un intenso, ragionato avvertimento al lettore odierno:
“Ti han perso loro
nel cui mirar ti perdevi:
delle zampe Bellezza
utilità non ha
e prontezza!”
(Il cervo alla fonte)
“Quale più gradita ricompensa
per la gru dal lungo collo
dell’aver ancor la testa
dopo aver al lupo tolto
dall’ingorda gola l’osso?”
(La riconoscenza del lupo)
La voce dell’antico poeta torna così a parlarci, dimostrando la sua attualità magari attraverso l’”esuberante fantasia” di una scrittrice contemporanea; è un altro episodio di quel prodigioso anacronismo dei classici lucidamente sottolineato da Goethe: costoro, figli di epoche diverse, se accostati con intelligenza, sanno giungere rapidamente alla mente e al cuore di ognuno di noi.
FLORIANO ROMBOLI
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