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Massimiliano Antonucci, Non sono versi di Giuda, Piero Manni Ed., Lecce 2005.

Saggi e note critiche di Valeria Serofilli

I VERSI DI ANTONUCCI FRA TRADIMENTO E AMORE

Nota di lettura di Valeria Serofilli a Non sono versi di Giuda (Piero Manni editore, San Cesareo di Lecce, 2005) di Massimiliano Antonucci.

Il volume
Non sono versi di Giuda di Massimiliano Antonucci pubblicato dall’editore Manni, richiede ed impone una lettura attenta, non casuale né distratta.
E’ un libro forte, infatti, compatto, intessuto di archetipi, simboli e allegorie. Simboli antichi che riaffiorano in metafore quotidiane, ma, allo stesso tempo, pervaso da un senso di sincerità, una volontà cruda e autentica di rivelarsi parlando di sé, di quel mondo interiore protetto da schemi e barriere, per una forma di difesa che tuttavia finisce a volte per corrodere dall’interno.
Non a caso il simbolo di base e partenza, personificato da chi è divenuto l’incarnazione stessa dell’atto, del pensiero e del moto interiore complesso e contraddittorio che lo genera, è il tradimento. Verso gli altri certo, ma, è giusto ribadirlo, prima di tutto verso se stessi.
Il libro di Antonucci si muove con dolorosa ma anche vitale, reattiva consapevolezza tra questi poli opposti, questi due estremi esistenziali: l’amore e il tradimento. Del resto “è dai grandi tradimenti che hanno inizio i grandi rinnovamenti”, per dirla con Rozanov
(1).
Già la copertina del volume, inquietante, quasi ipnotica, di certo non scelta per puri scopi estetici, manifesta chiaramente questa sorta di ossimoro, questo eterno contrasto: da un lato il mare, vasto, libero, ricco di infinite possibilità di incontro. Ma al centro di questa distesa azzurra, fertile di possibilità di fuga e di volo, due occhi limpidi, fissi. Simboleggiano forse
la casa, il centro, il punto di riferimento da cui si parte e a cui, per fatalità e scelta, come Ulisse si aspira a tornare, per poi magari sognare di partire di nuovo. Ricorrente è infatti, nel testo, l’immagine della CASA, secondo Bacheland(2) simbolo del mondo interiore ma anche simbolo femminile nell’accezione di rifugio.
<<Io cerco asilo in una casa che non è mia>> recita “Il conto”, molto diversamente dalla casa in cui l’io lirico entra <<fiutando una trapunta di dieci notti / una mano ferma / ed il tuo cuore sincero>> (“Gli anni del lupo”).
Si. Fiutando, perché il poeta, è un lungo lupo, un cane cieco nel vento, un orso con il cuore in mano (“Inferno”), muove le unghie a scatto per tagliare la luce (“Io”) e con zanne sporgenti morde la parola d’amore che la donna cometa, la Clizia montaliana, stringe in fondo agli occhi
(3). Quanto diversa è questa immagine femminile, destinataria delle liriche “Gli anni del lupo” e “In fondo agli occhi”, dal vecchio amore che <<gli ha rubato l’estate>>(“Il conto”).
Si tratta infatti, di uno sguardo taumaturgico e ineludibile, il cui messaggio si coglie anche in mezzo al mare; è l’amore, la libertà di perdere la libertà, ritrovandola ogni volta fuori e dentro di sé. Gli OCCHI sono, del resto, simbolo della conoscenza e la visione dualistica è anche una percezione mentale: <<l’anima ha due occhi. L’uno guarda il tempo, l’altro è rivolto verso l’eternità>> scrive Silesius. Due occhi quindi: l’uno è l’amore, l’altro la funzione intellettiva e per traslato anche l’odio e il tradimento. Il parallelo pittorico di Antonucci potrebbe essere un Ligabue.

Partendo da questa sincera disanima del senso e dell’assurdo insiti nel tradimento, Antonucci spazia tra incontri e ricordi, dissidi e amicizie, rivela punti di scontro e di riferimento. Perché <<nessun uomo merita una fiducia illimitata. Nei casi migliori, il suo tradimento è solo posposto nell’attesa di una tentazione sufficiente
(4)>>.
Da una forte carica empatica nascono le liriche “A Fernando”, “Infanzia” e “In difesa di Marco”, mentre “Io” è una sorta di autoritratto dell’io lirico, che segue e si ricollega idealmente alla Nota dell’Autore di pag. 13.
Così Antonucci <<pensando a un Giuda moderno traccia l’immagine dell’uomo che decide di nuocere al simile>> ma che tradisce in primo luogo se stesso e lo fa con un linguaggio sospeso tra solidità di richiami realistici o comunque verosimili, in grado però di assumere valenze simboliche richiamando mondi a tratti surreali, immagini fuori schema, ma sempre capaci di evocare viaggi verso l’inconscio, come solo gli occhi della Poesia sono in grado di suggerire.
Per concludere, questa raccolta di Antonucci segna una fase d’evoluzione dello sviluppo poetico e psichico rivolta verso lo spirito più che verso la materia (come invece preannuncia il titolo del prossimo lavoro ancora inedito “Materia”).
Un’evoluzione espressa con versi
(5) che non sono certo versi di Giuda.

Note:

1. V. V. Rozanov, Foglie cadute.
2. Bacheland Gaston, La poetica dello spazio, Bari, 1975, e anche L’air et les songes, Parigi, 1948.
3. Diversamente in altre liriche il lupo perde le zanne per farsi coniglio dorato ( Si veda la lirica “Come un lampadario
che illumina la notte”), cavallo pesante che non si muove (“La nostra storia”).
4. H. L. Mencken,
The sceptic, in The Smart Set.
5. Adopro la mia anima per tracciare versi, scrive Antonucci (“Inferno”), perché il poeta, sostiene, si esprime, come
l’anima, in versi, in quanto le parole sono corrotte. Lo stesso D’Annunzio sosteneva che “Il verso è tutto” (cfr. “Il
piacere”, II, 1).




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