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Un ombrello d'incerata verde (racconti), Intergraphica, Pisa, 2002.

Renata Giambene > Narrativa

Nota dell'autrice

Appeso a un chiodo sulla terrazza della mia cucina, c'è un vecchio ombrello di incerato verde. Nonno Pietro ci andava al riparo, con la pioggia o col sole, a fare il giro del mercato sulla piazza di Monsummano. Se a volte lo apro e mi ci metto sotto, non dico una sciocchezza, mi sembra di avere sulla testa il cielo del mio paese. Una cupola d'incerata verde e la voce dei miei vecchi che dalla Candalla alla Grotta si sono fatti una vita senza scosse, prendendo il bene e il male sempre per il verso giusto, con quella saggezza che viene dal saper parlare a cuore aperto, agitando le braccia perché la parola seguiti nel gesto e si perpetui nei figli, così che i sonetti del Giusti non s'abbiano a dimenticare e se qualcuno ci chiede il nostro umore, gli si possa rispondere scherzando che la vita è tutto un “giramento”.

Nota di lettura di Ivano Mugnaini de Un ombrello di incerata verde di Renata Giambene

“Verismo poetico”, è questa la definizione che si fa strada con maggior forza nella mente leggendo i racconti di Un ombrello di incerata verde di Renata Giambene. Non si tratta di un ossimoro, né di un accostamento di termini troppo ardito, in questo caso. Nel corso della sua ricca esperienza letteraria l'Autrice ha dimostrato di sapersi muovere con uguale naturalezza sul terreno della poesia e della prosa, senza limitarsi - ed è questo ciò che conta - ad alternare le due forme espressive, ma compenetrandole, innestando l'una sull'altra in un discorso coerente e complesso, un codice univoco di segni e di simboli.
In
Un ombrello di incerata verde, tuttavia, le comuni radici tematiche e di ispirazione che nutrono e sostengono la produzione della Giambene-poetessa e della Giambene-narratrice vengono alla superficie con un'evidenza ancor più marcata.
E' narrativa autentica quella di questi racconti. Precisi come miniature, attenti al dettaglio, alla sfumatura, al particolare in apparenza minimo che tuttavia si rivela capace di dischiudere un mondo favorendo il sorgere di quella complicità tra chi “dice” e chi “ascolta” che è fondamento essenziale di ogni forma di racconto. Narrativa vera, certo, ma con un quid in più: un fascino particolare che trae origine dal suolo di tale accuratezza documentaristica, per poi condurti però, quasi di soppiatto, senza eccessi né forzature retoriche, alle quote intense ed avvolgenti della spiritualità. Spiritualità da intendersi qui come volontà di lottare contro la vita e per la vita, per quel granello di umanità che custodiamo dentro: quel qualcosa di indefinito che nasce dalla poesia e che alla poesia riconduce.E' profondamente poetica la sobrietà d'espressione con cui vengono narrate le storie degli uomini e delle donne “comuni” protagonisti dei racconti di questo volume. Non c'è mai un aggettivo superfluo, un termine qualsiasi che sia possibile etichettare come ridondante. Nel giro della frase è costante l'equilibrio tra ciò che è reso esplicito e ciò che resta alluso, suggerito. La parola, pur nella crudezza dei temi e delle ambientazioni, rimane nitida, vibra della materia delle esperienze, la carne delle speranze, delle disillusioni, della realtà. Non c'è spreco né violenza ai danni del senso e dell'armonia. Non c'è sfoggio o banalizzazione.
Basterebbe leggere i titoli delle storie narrate per farsi una prima idea di questa economia di linguaggio che equivale qui a concentrazione, saldezza espressiva:
“La fatica”, “Il lamento”, “La finta”, e via dicendo. Brevi e secchi come fucilate, diretti al cuore della questione, e al cuore del lettore, alla sua attenzione, al coinvolgemento. L'urgenza del dire corteggia con passione e con successo la volontà di essere “affabulati”.
Questa prosa asciutta ed essenziale risulta in modo immediato come la soluzione tecnica ideale per proporre la materia trattata, la dimensione umana a cui la scrittrice restituisce forma e respiro: un angolo di Toscana degli anni cinquanta. Un microcosmo distante una manciata di lustri, in fondo, ma, a ben vedere, lontano anni luce dalla realtà attuale, dai computer, dalle reti, dalla multimedialità, dalla sfera magica e a volte cupa del “virtuale”. I racconti di questo libro ci riconducono indietro, in un tempo in cui le cose sono ancora le cose, eternamente sospeso tra povertà e ricchezza, idillio e tragedia. Un mondo in cui non di rado è la miseria - non solo materiale - a farla da padrona, al punto che la parola stessa, il discorrere, diviene un lusso e un dolore, squarcio di voce che allarga una ferita. Allora la voce si fa ricordo, leggenda, memoria condivisa di fatti veri e sognati. Ritmo di giorni scanditi dalla natura e dalle feste comandate, stagioni di raccolti, di fame e di pane, di rare vendemmie di gioia strappate con i denti a suoli ingrati.
Racconti di ambientazione rurale, quindi, in gran parte, ma con alcune significative “escursioni” nelle vie e nei palazzi di città che sopravvivono oramai anch'esse esclusivamente nella topografia della memoria. Istantanee in bianco e nero di viali percorsi da rare, orgogliose automobili, e da schiere di passanti impettiti con tanto di cappello di feltro. Memoria cara e preziosa per chi ha vissuto quei giorni, pur nella pena e nella coscienza ineluttabile dell'assurdo. Nell'impressione, suggerita in modo palpabile da più di un racconto, che anche l'alacre alveare urbano altro non sia che una gabbia d'acciaio per criceti pensanti.
Un mondo connotato in modo preciso dal punto di vista storico-sociale quello dei racconti di
Un ombrello di incerata verde. Eppure, in virtù della sincerità con cui sono narrate le vicende, in virtù del coraggio di guardare dentro le cose, negli aspetti più fragili e veri, risulta capace di assumere valenze universali, radicate nel profondo di ogni uomo e di ogni epoca. Non c'è più oggi, in questo duemila ipertecnologizzato, la valigia legata con lo spago dei nostri emigranti diretti verso l'Australia o L'America, simbolo amaro del racconto “Il lamento”. Ma è ancora attualissima la sensazione descritta nella parte iniziale del racconto, quella dei tanti che “se ne vanno così senza dire niente” - per viaggi reali o solo anelati - “e quando ritornano è come se non si fossero mai mossi”. Cuori tenuti insieme alla meno peggio e sballottati su cammini affannosi.
Ad occhi aperti e con sguardo nitido è vissuto nell'intero volume anche il rapporto con la religione, o meglio con la religiosità, il pensiero di qualcosa che va al di là della contingenza, della fragile inconsistenza della carne. I giorni del borgo sono scanditi dai rintocchi delle campane; metronomo antico della quotidianità. Uguale a se stesso da secoli, tanto che quando si fa cenno a “la domenica prima della festa grossa” sarebbe qualcosa di assurdo e inverosimile chiedere a quale festa ci si riferisca. La religione è parte integrante della realtà descritta, ma non è vissuta in modo quieto o passivo. In un mondo aspro di sofferenze ataviche, persino la divinità appare impotente di fronte al volto più crudo del fato. Il solo dio possibile allora diventa un dio che lotta con l'uomo, o meglio che lotta
come l'uomo, finché può, con forze limitate, non sempre consone e sufficienti. Un dio che, come fa capire ancora nel racconto “Il lamento” lo stesso sacerdote, non può essere dappertutto. In alcuni luoghi, come nelle miniere degli anni più duri e rischiosi, Dio è assente. Ha perduto il dono dell'onnipotenza e dell'ubiquità, acquistando, come compensazione, una maggiore umanità. Il diritto alla pietà che si mischia ad antichi, inesorabili rancori. Il diritto alla pietà è la speranza che riesca ad essere più vicino nel momento del dolore. Che sia presente, a volte, anche nei cunicoli stretti e traballanti della vita.
Anche la speranza in questi racconti è inseguita ad occhi spalancati, con lo sguardo di chi scruta il cielo prendendo quello che viene, il diluvio e l'arsura, con un'imprecazione secca, priva di sorpresa e colma di ironia. Renata Giambene accentua ad hoc la credibilità di tale atteggiamento limitando al minimo indispensabile gli interventi autorali, i commenti, i giudizi morali sui personaggi, le valutazioni di ordine filosofico su come il mondo effettivamente va e su come sarebbe bello se andasse. Il fascino di questi racconti deriva anche da questa assenza di filtri e barriere protettive. L'Autrice ha saputo celare così bene la sua presenza, la sua mediazione, che non di rado si ha l'impressione di trovarci seduti all'ombra del portico di una casa colonica o in un cortile di un palazzo ad ascoltare le storie direttamente da chi le ha vissute, o le ha sentite, ascoltate, intercettate con malizia e con altrettanto spietata innocenza riferite al suo pubblico. La vita che parla della vita, in sostanza. Senza trucco e senza ipocrisia. Cruda e tagliente, ma non più dolorosa, in fondo, di certe menzogne destinate a dissolversi in rivoli di veleno.
La speranza, se e quando esiste, nasce proprio dalla serena accettazione della fragilità umana, fatale limitatezza che osa sfidare se stessa, a volte, e sa tramutarsi nella grandezza del sentimento. Una metamorfosi che solo l'orrore di sé, la percezione improvvisa del baratro, può realizzare. Come nel racconto “L'omaccio”, in cui la sicumera del cinico dongiovanni del borgo termina la sua parabola nella dolcezza del gesto che fa seguito all'agra e improvvisa cognizione del dolore: quel porsi la mano sul cuore che equivale a scoprirlo per la prima volta, a sentirselo nascere dentro. Il tutto è narrato, anche in questo caso, senza orpelli e senza interposizioni. La poesia della vicenda erompe spontaneamente dagli eventi. Si impadronisce del lettore senza bisogno di artifici posticci.
Rare volte la scrittrice si sofferma sul significato simbolico e teleologico delle condizioni umane anziché mostrarle in modo diretto e lasciare che parlino da sole. E quando lo fa, come ad esempio nell'incipit de “La finta”, amaro apologo di impronta pirandelliana, la questione teorica non è mai viziata da volatile inconsistenza. Il ragionamento trova subito un appoggio terreno, ricalca meticolosamente i contorni del vissuto.
Tutto ciò accade anche nel più complesso e articolato dei racconti, “Il tizio”, collocato, non a caso, a chiusura della raccolta. Già l'esordio assume in modo evidente valenze che vanno al di là della specifica situazione descritta. “Penetrare nella vita di un tizio qualunque, scoprirne a poco a poco emozioni e desideri, fu, per me, un'esperienza molto interessante, ma soprattutto amara”, rivela l'io narrante. Non solo confessione di un personaggio, chiaramente, ma anche riflessione metanarrativa: l'attività dello scrivere si guarda allo specchio e si sorprende a ragionare su se stessa, sul proprio significato, sui privilegi e sul prezzo da pagare. Nel racconto citato inoltre, con l'abile espediente di un'ulteriore rifrazione dello sguardo e del punto di vista, l'Autrice fa sì che l'oggetto dell'osservazione sia a sua volta coinvolto nell'atto dello scrivere. Si tratta di un professore a riposo, con malinconie e solitudini da poeta, colto mentre trascorre “interi pomeriggi davanti alla scrivania, intento a riempire pagine e pagine bianche di parole fitte e minute”. La scrittura si focalizza su una vita che è a sua volta scrittura. Il cerchio si chiude. Anche in questo caso siamo ben lungi dallo sfoggio narrativo fine a se stesso. Il dolore infrange la geometrica perfezione della struttura e si manifesta nella sua crudezza, generando una lucida percezione dei destini umani che solo una carezza di affetto sincero può sciogliere, nel finale, in un pianto catartico e liberatorio.
Non c'è, in questi racconti di Renata Giambene, il gusto agro della resa incondizionata alla disperazione. C'è, al contrario, la volontà di resistere tenendosi stretti a ciò che resta di solido anche dopo i naufragi più rovinosi: i legami profondi, le radici, la terra vissuta e sognata. Gli affetti e i pensieri che costano e pesano, ma resistono tenaci ai flutti ed ai colpi del vento e del tempo.
Il dolore esiste, testardo, inesorabile. Ma l'invito è a non sposare la filosofia della “lenta rassegnazione che quasi non [fa] più male”, né ad abituarsi “come le bestie che si lasciano addomesticare”. L'esortazione, semmai, tanto più implicita tanto più efficace, è a non stancarsi di cercare le pupille della vita, per cogliere, in mezzo a lampi acceccanti di rabbia e furore, la dolcezza di un riflesso più tenue.
Sotto l'
Ombrello di incerata verde di Renata Giambene c'è equilibrio e raccoglimento, l'intensa capacità di ricreare un mondo, un'epoca che riprende vita per chi l'ha vissuta, ma anche, per i più giovani, la possibilità di riscoprire le radici salde e sincere di un sentire che travalica le barriere delle generazioni. C'è la verita di una narrazione armonica che compenetra la poesia e la rende viva. C'è la mano sicura di una scrittrice che mette al riparo da scrosci dilaganti di parole “di moda”, troppo spesso gelide e inconsistenti, e ci conduce a scrutare scorci nitidi di memoria e sensibilità: i cieli più vivi e autentici del nostro orizzonte interiore.

Ivano Mugnaini


CON GLI OCCHI ACUTI DI DONATELLO D'ORAZIO

Non dirò, che il lettore, se gli piace, può sorvolare la questione prostatica e darsi, senz'altro, alla lettura del libro; di là da queste pagine s'incontra un modo di raccontare, di cui il lettore va informato.Nella prospettiva dello spirito italiano l'amarezza toscana non rimane da scoprire: trema nella voce, palpita nel pensiero d'ogni nostro interlocutore toscano, ed esplode negli sfoghi di Mario Pratesi, intride il racconto di Renato Fucini, insapora come d'erba le creature di Guelfo Civinini; ma, tra l'avvio e l'arrivo d'un racconto di Renata Giambene Minghetti, lievita l'inatteso.
Badate a quest'avvio: <<Emma giaceva immobile, posseduta fino al collo da una ingessatura pesante…>>. Non si vede che, prima di ottenere questo punto – forse, il punto – la scrittrice ha, deliberatamente, perduto molte cose superflue, almeno nella sua estimazione? Badate a quest'altro avvio: <<La città mi pesava nel cervello assonnato>>. Il racconto è già nato, come da una esemplificazione. <<Avevo finito>> seguita la scrittrice, tuttavia per conto d'altra persona <<di pranzare da poco>>: e questo po' d'antefatto, capitando nel tessuto, vi apre uno spazio come in un'architettura, per modo che, se nell'antefatto avrebbe avuto valore di prima, ora partecipa del racconto. Ma, di solito, con l'avvio si assiste alla partenza, non al carico del racconto; come in questo esempio: « Quando sentirono nelle nari il pizzicore del salmastro, e l'ansimare del porto fu vicino a loro, Panio disse che era meglio fermarsi...»; o come in quest'altro «La persiana era stata calata a metà. Titta non c'era...». Talvolta, il primo momento sente l'ultimo, di cui reca un poco della definitività: «Come una Pietà se ne stava quella donna davanti al Casermone di San Giorgio..».
Ma le conclusioni sono davvero conclusive. Eccone una «Alla pineta dell'Angelo non ritornammo più a giocare a mosca cieca. Eravamo grandi ormai e avevamo paura della, morte, quella vera, ingiusta, che prende a tradimento un soldatino in salita e spezza il canto innocente di un girotondo». Si direbbe che il moto del racconto non abbia residui o che abbia valicato un limite, di Id dal quale l'uomo non trova utile seguirlo, come in questo caso: «... ma qualcosa di più profondo in lei, come una pena lunga le si liberò dalle labbra e il lamento parve salirle dal grembo con la voce sconosciuta della sua creatura; poi il suo pianto stesso coprì di singhiozzi il lamento ed ella ricominciò a muoversi nella stanza con quella lenta rassegnazione che non faceva quasi male». Quando un ruscello sbocca in un fiume non da pensieri simili a questo?
Altra volta, il racconto porta a una scena, a uno sfondo, sul quale,tuttavia, nessuno compie nulla, non si sa se per stanchezza o per il sentimento che, ormai, non vi sia altro da fare. Per esempio: «Un ubriaco, una piazza deserta, una tromba che suonava malinconicamente al davanzale di una finestra sotto le stelle, un cane randagio e come uno spillo, la donna, piantata nel tabernacolo della sua attesa senza tempo ». Ossia, il ruscello sbocca nel fiume e le persone entrano — o rientrano, dopo il loro racconto — nell'ordine di tutto il resto.
Tra l'avvio e l'arrivo, non direi che la scrittrice narri per filo e per segno, come i cronisti, ma per certo narra secondo un proprio filo e un proprio segno, colpeggiando come chi dipinga, taccheggiando come chi componga. I pellegrini hanno sempre un giorno dietro le spalle: e le persone di questi racconti sono pellegrini avviati da un punto della vita alla vita. Talune, pure in mezzo agli altri, vivono sole: ecco, poniamo, Tanone, l'omaccio, il quale, una volta, «si porta», nondimeno, « la mano al cuore ». Ma tutti camminano da tempo, sicché paiono un pò stanchi; e chi stupisce davanti a taluno che, per giungere, si uccide ? Hanno immaginazione: cioè, vivono; e sognano. Dicono « Mi piacerebbe... ».
Che cosa? « Avere un figlio ». I figli restano; e taluno si ricorda d'essere (stato) figlio pure lui. Il figlio è il sogno del padre, e tutti sono padri di sogni. « Mia madre, da ragazzo, mi stringeva una guancia con due dita e diceva...». « Una volta » soggiunge « andavo in chiesa a servire la Messa »; poi chiede al compagno: «Ci credi tu ai miracoli?» «A volte sì» suona la risposta.
Ma ognuno di questi racconti termina con qualcosa di simile a un miracolo. «Vide» (il sagrestano) «il sacco e immaginò di trovarvi chissà quale tesoro. Era un tipo pieno d'immaginazione...». E' stato detto: «Beati i poveri...»; e anche in questo libro la loro via ha approdi felici. Che c'era in quel sacco ? «Quando entrò il parroco per la prima Messa, trovò l'omino stecchito nel sacco e davanti agli angioli dorati, sospesi sull'altare maggiore, fece un servizio funebre in piena regola»; e non v'ha dubbio che la povertà sia destinata alla ricchezza.
D'altro canto, nessuno, nemmeno lui, il povero, sembra del tutto tale: ognuno ha un bene, che, dalla lettura di questo libro, sembra essere l'attitudine di ciascuno al sogno. Il quale è, sì, quello che si di ce, ma anche una parte della vita, quasi diremmo, della realtà. Il pirandelliano si chiede: «Dove finisce la realtà? dove comincia il sogno?»; ma ognuno dei racconti che seguono conduce al sogno — come in un'altra zona della vita. L'arbusto reca il fiore, la vita si accima nel sogno: nel bozzolo, prima che l'ala non è il sogno dell'ala? Il corpo, a Emma, non le appartiene più: può accadervi, perciò, l'inaspettato; se volete, il miracolo o quel qualcosa che gli somiglia. Stando in letto, essa ha sognato, che poteva fare? Ha sognato, altresì, da campagnola qual'è: naturalmente, la campagna; e, proprio naturalmente, una mattina accade questo. « Va meglio, vero?» s'informa una suora. Dalle sue labbra esce un . Sì—lungo, chiaro, e dai suoi capelli disfatti la mano distratta della suora trae un papavero violetto.
Sarebbe strano, ora, se si volesse sapere come ciò è stato possibile.
Si sa da tutti che la vita contiene pure l'incredibile; ma non si vuole aver l'aria di girare l'ostacolo. Nella durata dello stesso racconto, una bambina bacia in faccia la donna inferma; la scrittrice annota: « Emma battè le ciglia più volte, ma non pianse e il bacio della bambina sulla guancia le inumidì la pelle come un ciuffo d'erba tenera ». « Come » spiega la scrittrice; ma è diffìcile che altri dica la medesima parola e figura retorica con la medesima urgenza; talché il papavero spunta di tra i capelli della donna di campagna allo stesso modo che la bocca della bambina mette sulla sua guancia « un ciuffo d'erba tenera ».
All'origine di tal naturalezza lievita una segreta parentela, quasi un'amicizia della persona umana e delle cose della terra. Così, la gente spaventata da un segno corre verso la campagna; e la scrittrice annota: « Volevano morire tra le piante ». « Mi sgusciò » nota altra volta la scrittrice, la mano di un bambino « dalle dita. Ebbi la sensazione di un leprotto ». Altrove, svela: « La paura della morte non ci guastava il sorriso. Se la raffica fosse arrivata al punto giusto, ci avrebbe lasciate giovani e buone con un pugno d'erba per guanciale ». Altra volta, dichiara: « Avevamo nel sangue e nell'aria un maggio biondo e fiori tra i capelli», perché dunque, la suora non avrebbe potuto trarre un papavero di tra i capelli della campagnola inferma?
Al pari delle creature, anche le cose sognano: Emma sognava la campagna, il papavero della campagna sognava i capelli di Emma: e, a un punto, ci si è ritrovato in mezzo. La farfalla è l'attuazione d'un sogno d'ali: che cos'è, pertanto, il sogno? Non, certo, quello che usa pensare: la realtà, si dice, è questa, il sogno è quest'altro. Un pirandelliano faceva bene a sorridere della distinzione, che implica un concetto di vanità del sogno; e bene fa la scrittrice, fino a raggiungere l'inedito, quando nota: « Dentro un sacco un uomo piccino paò anche sognare »; quando soggiunge: «I poveri sognano spesso». Perciò, del resto, gli altri, i non poveri, non hanno se non quello che posseggono, mentre i poveri meritano proprio ciò che non hanno. In uno dei racconti che seguono, un povero si merita un servizio funebre in piena regola, cui non aveva mai pensato.
Qua, non v'ha dubbio, l'amarezza toscana entra in una figura nuova: e il nostro discorso, tornando al punto di partenza, conclude.
Ma la personalità della scrittrice seguita ad occupare spazio nello spirito.
Il primo incontro col « suo raccontare » l'ho fatto nella terza pagina d'un giornale siciliano: il Corriere di Sicilia. Collaborano al giornale gli scrittori di gradimento del direttore, ma io ebbi l'impressione che la scrittrice si trovasse là per una ragione più intima simile a un'affinità elettiva: e la impressione si addensò quando, più tardi, lessi un altro suo racconto, già citato, nel quale un omino è spinto dal freddo a calarsi dentro un sacco, dove si addormenta e sogna. Fuori, la tempesta infuria e il vento entra nella capanna, scompigliando ogni cosa. « L'omino » annota la scrittrice «avrebbe voluto destarsi; proprio faceva freddo, un freddo insopportabile e i brividi come aghi nel cuore, ma non riuscì più ad aprire gli occhi e rimase vivo nel sogno». Le parole, che sottolineiamo, non dicono nulla di mediterraneo in generale, di siciliano in particolare?
Un giorno di questi, ho aperto La soffitta—che il poeta Mario Gori manda ai peninsulari da Niscemi, come a dire dalla riva del Mediterraneo — e m'imbatto in questo « dubbio » di Giuseppe Villaroel:«o non sei giuoco del tempo, uguale al subito stupore d'essere un sogno e di trovarci vivi ?»
È chiaro:
Renata Giambene Minghetti conduce l'amarezza toscana all'incontro con la fatalità siciliana e non sembra poco che dentro la sua pagina spazi tanto spirito italiano .

Donatello D'Orazio




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