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Franco Giuntoli

Lettere aperte all'Autrice

Non avendo grande simpatia per l'esercizio della critica – che spesso è una finzione per apparire intelligenti – mi piace provare un commento alle poesie di Valeria Serofilli come vicino di casa , che insieme agli amici l'accompagna a una festa.
Tanto più che la lettura di queste sue composizioni mi ha rinnovato proprio l'impressione di qualcosa di sorprendente e nuovo, ma che ritorna perché da sempre attendeva ignoto e presente.
Nella lingua popolare toscana, che sta scomparendo dal dizionario (e forse ha bisogno di onore nel momento in cui soccombe al potere di altri, che non soffrono di nostalgie), “tornare” significa anche “tornar di casa”, sgomberare in altra dimora”, dove per altro il nuovo inquilino non era mai stato prima di allora.
Ecco, Valeria non era mai stata in quella casa vicina ma c'è tornata, poiché le sue parole inaudite, mai sentite prima potessi immediatamente sentirle come familiari.
Erano lì e attendevano di essere dette, erano come da sempre, anche se mai sarebbero venute alla luce se un trasloco non le avesse chiamate alla presenza e così non fossero avvenute, come un evento. Il tornare per i latini è il “volgere al tornio” che però per metafora aveva anche allora qualcosa a che fare con la poesia: se quest'ultima riusciva male Orazio poteva additare “versus mali tornati”, se la composizione aveva da essere accuratamente cesellata Properzio raccomandava di “angusto versus includere torno”. Se la ruota gira, ritorna un evento. Ma non è tale se nello stesso tempo non è identico, e perciò immediatamente riconoscibile, e nello stesso tempo nuovo. Come se sempre si trattasse di un difficile esercizio fra ripetizione e tempestiva e giusta differenza.
Diceva Eraclito: .
o hlio neo efhmhrh eotin
Ecco, ho avuto la sensazione, quando ho letto le poesie di Valeria, che fossero tornate parole che ho sempre conosciuto, ma che non avevo mai udito.
Percezioni infantili e sorprendenti: “sgorga, eppur schizza gioconda, se mano le interrompe la corsa”; esperienze quotidiane e sognanti: “la goccia si sfaccetta, si accalca, a raggiera si moltiplica, sul cristallo che si appanna”, con allusione esistenziale alla vita che poi ha bisogno di un tergicristallo per non perdere una strada sicura; metafore del nostro vagare nell'esistenza dove, ancora, quasi ci si perde: “salgo scale senza corrimano per affacciarmi curiosa ad ogni piano: Troppo alto il volo”; scelte di una volontà che deve tagliare biforcandosi, ma non come all'antico bivio di Ercole, ma come se fosse “coda di rondine” che “ti biforchi a sera quando scelta s'impone: e osi”; desideri scolastici e colti evocati con antichi luoghi comuni, che insorgono genuini: “Voce di conchiglia recami echi di lontano Ulisse, dipanati in fusi di Penelope o avvolti ancora in rigonfie conocchie Delie abbandonate a riva”.
Delle composizioni di Valeria, e in particolare della raccolta inedita
Tela di Eràto, ho apprezzato innanzi tutto un paio di caratteristiche che paiono mutuate pedissequamente dalla tradizione, a cominciare dall'intento didascalico e descrittivo- elencatorio.
Quest'aspetto si avverte subito nella poesia che da il titolo alla raccolta e che unumera garbatamente le nove muse; oppure nei tratti descrittivi che illustrano lo “Chalet” (“luce damasco, muschio sandalo su abete / limoges riversi su parete. Colore in me di velluti antichi / intarsi d'acanto, composizioni oppiate di secchi fiori in peltro. L'animo lascio che mi candeggi il pizzo a dentelles”) con suggestive sinestesie iniziali, che subito rigenerano un clima soffuso, intimo e raffinato.
Almeno in un caso la descrizione diventa quasi una sentenza pedagogica: il “Vecchio libro” si conclude con nostalgia “Anche l'acaro di polvere sa, che pratica va a scapito di consequenzialità”.
Lo stesso commento poetico di immagini più o meno classiche esemplificate con riproduzioni, l'abbinamento di opere d'arte pittorica e della loro lettura, oltre a tradire un'educazione estetica, conferma l'inclinazione a rappresentazioni iconiche, che catturano i dettagli percepibili e che li chiamano col loro nome.
Oggi non siamo abituati ad ascoltare il lungo elenco delle navi e dei loro equipaggi, come quello dell'Iliade, né ad imparare le vicende teogonoiche: eppure anche la scrittura alfabetica ha vissuto i suoi primi splendori proprio con questi racconti costruiti su diligenti liste di nomi, di nomi propri.
La nominazione è parente dell'affabulazione di cui hanno bisogno i bambini che apprezzano la completezza descrittiva, certo apparente, e che sono comunque famelici di particolari da aggiungere metonimicamente nel racconto (“….e poi?….e poi?): “Il castello vuoi intorno e poi l'interno e il ponte levatoio/fantasia mi chiedi e io rispondo per non togliere malta e smalto al tuo mondo” (in "Affabulami”).
Valeria ha provato a “rivisitare Fedro” e a prendere “comete per la coda”, a favore in particolare di un piccolo interlocutore esigente, ma anche per tutti i bambini. Moravia diceva che affabulatori si nasce. Si può anche cercare di diventare tali, ma è difficile anche quando, da genitori premurosi, ci armiamo di buona volontà per incarnare l'attesa dei nostri bimbi, sperando che si addormentino presto.
[Io ricorrevo a qualche onomatopea ripetuta, per esempio imitavo il trotto di un cavallo che da lontano stavo forse approssimandosi alla casa del bosco. Ma talora l'insistenza non funzionava e allora aggiungevo che il bambino della casa romita nella macchia, che aveva sentito il cavallo, si addormentava e nel sogno sentiva di nuovo il trotto, che era imitato con le medesime chioccolanti onomatopee, sempre con la speranza che la bimba si addormentasse, per evitare sogni di sogni e per difetto dunque di affabulazione, che dovrebbe rinviare il sonno facendo sognare prima di dormire].
Valeria invece per il pupazzo di neve riesce a immaginare anche l'invisibile, oltre al naso e magari…alla sciarpa: lo arricchisce di un cuore e suggerisce “mela rossa o grosso pompelmo vanno bene”.
I nomi e i loro significati sono il nostro primo destino di mortali che parlano. “Per quel che ci appare, così queste cose sono nate / E ora sono, poi, cresciute, finiranno. / Gli uomini, ad esse, a ciascuna, posero un sigillo […………], un nome” diceva Parmenide.
E i nomi urgono anche nella poesia di Valeria. Magari partendo dai significati o da qualche fonema:
“Se ti bisbiglia un fruscio in mente e non l'annoti, non cede il passo a parola alcuna” recita il bell'esergo di
Tela di Eràto.
I suoni si compongono poi nel lenimento delle parole: “Colpi inferti dalla vita puoi smussare con la tua rima, per far girar, con la parola, la ruota come vuoi che vada;
è il barlume che ti vela la realtà, poi la disvela e come luccichio di cera, luce leva e poi rivela” (“La poesia”).
Tornano appunto qui sia la metafora del “girare” da cui siamo partiti, sia antichi messaggi filosofici in questo gioco parmenideo del “disvelare”, certo guardando, ma anche nominando con la parola alata e cerata come le ali di Icaro, che però non ci sostengono quando ci si avvicina troppo al sole, al bagliore del volto della dea.
Il secondo aspetto che mi è parso in qualche modo rilevante, anche se certamente non raro neppure oggi, ha ancora un rapporto con i numeri, cioè con il ritmo, con un modo di versificare che mira a una configurazione precisa (anche spaziale, nelle sue simmetrie grafiche), ad architetture di strofe che cercano di riprodurre anche, come in “Carnevale”, delle “strofe affiche”, per trovare una regola e una misura nelle quali far giocare l'immaginazione lessicale.
Non dobbiamo credere che la versificazione contemporanea sia necessariamente libera e sempre alla ricerca di nuove musicalità e di corrispondenze originali o comunque non assoggettate alle antiche gabbie della prosodia e della metrica.
C'è anche chi ha sostenuto, pur partecipando alla ricerca del nuovo, che la creazione avesse bisogno di una precisa disciplina, di vincoli e di una necessità. Per esempio, a questa severa guida non intendeva rinunciare Queneau, che era vicino all'Oulipo – addirittura un'“officina della letteratura potenziale”. Probabilmente non bastano le strutture compositive a scoprire i segreti della poesia; né per questa via si potrà arrivare a una teoria dell'evento poetico, così come una trentina di anni fa si sperava di padroneggiare fenomeni molto complessi, o almeno cominciare a comprenderli.
Ma non c'è dubbio che questi vincoli contribuiscono a tracciare il sentiero di una fuga che potrebbe diventare vertiginosa: “Dall'alto: distanza sapiente regalami saggezza non d'Icaro in volo”; “Riprendo le mie fila del discorso, in questo esausto meriggiar d'agosto”, per salvarmi dall'estasi panica”.
Museo, discepolo di Orfeo, in realtà non è consacrato alle Muse ma, se diamo credito a Giovanni Sembrano, è figlio della notte: Il mistero è una veglia notturna in onore delle divinità ctonie.
Conviene esorcizzare il potere con qualche antica misura.
Anche il volto della dea, la verità da scoprire, di cui prima si diceva, è in fin dei conti una superficie, abbagliante e allusiva a ogni profondità che ci sfugge. Una superficie sulla quale si rapprende una molteplicità di enti che hanno un nome o che chiedono di averlo e che possono essere enumerati, come tutto. Fuorché, forse, il tempo che è anch'esso numerus, ma “ti corrode e ti scava dentro” e trascorre irrevocabile; eppure “ti rimane impigliato nella veste”.
Se recuperiamo “un tralcio di quel tempo” non vi rintracceremo parole perdute, perché quello era il tempo “in cui solo nutriva il gesto e ogni parola o frase era soverchio”.
Forse il ricettacolo più segreto di queste composizioni risiede proprio in questa meditazione sul tempo.
Il tempo dell'attesa e della festa, sospeso o intenso, è una sorta di nucleo ineffabile che attraversa queste raccolte di poesie che hanno diversi intenti e destinatari.
Il tempo è un po' l'infondato, la fuga mistica fin dove la parola non può quasi più soccorrere; ci lascia soli nella “radura dell'essere” e noi lo esorcizziamo con l'infinito trattenimento della parola, magari con queste stesse parole che vivono parassitariamente delle poesie. Un riverbero di giustapposizioni metonimiche o, al massimo, un'eco lontana perché la loro voce non si spenga presto.

Franco Giuntoli




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