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Andrea Salvin: Su Fedro rivisitato di Valeria Serofilli

Le Opere > Fedro rivisitato (Poesia)
Su Fedro rivisitato di Valeria Serofilli
di Andrea Salvini

All'inizio della nostra recensione a Tela di Eràto, apparsa sul numero di agosto di "Pomezia notizie", esordivamo dicendo che non era stato facile rintracciare un unico filo conduttore nella raccolta: questa ci era apparsa come una vera e propria tela, costituita di molti fili in trama e in ordito. Con Fedro rivisitato il nostro compito è stato, in un certo senso, più facile. Questo viaggio del cuore e della mente dell'Autrice all'interno dell'antico favolista ci è sembrato attestare una raggiunta maturità nella padronanza dei mezzi espressivi, con i quali la Serofilli ha saputo infondere nuova vita negli antichi apologhi per riproporli ai lettori di oggi, sempre forse un po' prevenuti di fronte ai messaggi esplicitamente morali.
Lo stile della raccolta sembra avere veramente qualcosa di classico. I verbi sono pochissimi. I sostantivi appaiono e sembrano campeggiare in uno spazio indeterminato. A volte si affiancano l'uno all'altro come su una via Appia dell'anima e definiscono l'apologo un passo dopo l'altro davanti agli occhi del lettore viandante. Ogni verso, poi è una frase che vive di vita propria, diventando un'immagine epifanica che si fissa nella mente di chi legge. Proprio il procedimento dell'epifania degli oggetti era un dato di fondo che avevamo individuato in Tela di Eràto, ma, mentre lì si trattava in genere di oggetti e situazioni quotidiane, qui abbiamo le favole di una tradizione plurisecolare.
Ma non vorremmo intrattenerci ora su questi aspetti che altri hanno già affrontato in sedi più opportune. Parlavamo della grande maturità formale raggiunta da Valeria. Possiamo cominciare ad illustrarla partendo dal Prologo, con un esempio minuscolo: l'anafora imperfetta trimembre (anche se ... anch'essi ... anch'essi), che proprio grazie alla sua imperfezione accoglie in sé una variazione di significato, e vi gioca sopra (tra "anche se ... anch'essi). E' un passaggio, questo, che può fornire già fin dalla prima pagina al lettore non superficiale la cifra, per così dire, dell'intera raccolta.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma ne vedremo solo alcuni. Prendiamo subito in esame due liriche tra le più brevi, La riconoscenza del lupo e La rana e il bue. Nella Riconoscenza del lupo Il primo verso termina con ricompensa e si collega al terzo, che finisce in testa. Ci aspetteremmo che il quinto e ultimo si trovasse in assonanza con il primo e il terzo; esso invece ha le vocali del secondo e del quarto. Ne La rana e il bue abbiamo una sola rima vera e propria, tra il primo e l'ultimo verso, che si propaga però agli altri versi grazie ad un gioco sapiente e spiritoso di assonanze e consonanze, sottilmente variate in modo da evitare completamente la monotonia. Se guardiamo in modo più attento ai suoni impiegati nelle due liriche, ci convinciamo ancora di più del delicato limae labor messo in atto dall'Autrice.
Nella Riconoscenza del lupo percepiamo l'alternarsi di "l" e di "g", che danno il senso della sospensione angosciosa insita nell'operazione della gru che con il suo becco deve infilarsi proprio nella gola del nemico. Ne La rana e il bue i suoni consonantici che prevalgono sugli altri sono la "p", la "t" e la "k". Gli intarsi fra di essi sono tramati dalle vocali "o" e "a". Nel primo verso prevale la "p". Nel secondo abbiamo la "p" all'inizio, che lascia subito il posto alla "k"; quest'ultima prevale anche nel terzo verso. Nel quarto verso si alternano la "p" e la "t", mentre nel quinto e ultimo la "k" e la "p" si alternano (prima la "k" e poi la "p") con una meccanicità tragicomica, seria e divertita insieme, che ci rende con una immediatezza senza pari lo spettacolo della rana che ha cercato la sua rovina per una ridicola e folle gara.
Vediamo ora Il cane ingordo: "brilla" e "succulenta", incorniciano l'epifania della bistecca. I suoni "b" e "c" (palatale), con il loro intarsio ritraggono l'immobilità della scena iniziale del cane che scorge se stesso riflesso con la bistecca in bocca nella corrente. Il ritmo si velocizza improvvisamente nei versi successivi, dove la "k" si interseca con la "r" e ritrae lo scatto improvviso del cane che cerca di arraffare l'altra bistecca, fatta solo di un barbaglio di luce, e perde quella che già possedeva.
L'ultima lirica della raccolta s'intitola non a caso Talento e costituisce una implicita dichiarazione di poetica. Anche in Tela di Eràto avevamo alla fine delle liriche che si connotavano come dichiarazioni di poetica. Il testo di riferimento è la favola dell'asino che non riesce a suonare la lira e ne tenta rassegnato le corde, riuscendo a produrre solo rumori sgraziati. Il fonosimbolismo qui raggiunge, a nostro avviso, un vertice. Nella prima strofetta, infatti, il suono di "k" sapientemente intrecciato con "p" sembra far sentire al lettore i colpi sordi dell'unghia dell'asino sulla lira inerte.
L'Autrice, pur impegnata in una rivisitazione che la vincolava ad un modello, non ha fatto mancare neppure in questa raccolta la sua riflessività venata di inquietudine, quale ci parve di coglierla in Tela di Eràto. Ne è un esempio, a nostro avviso, L'anfora, la lirica più pensosa della raccolta, e, per noi, la più bella. Non a caso, crediamo, costituisce in pratica il centro della silloge.
All'inizio del suo testo la Serofilli pone l'epifania dell'oggetto "anfora", mettendo in atto un procedimento a lei caro, come abbiamo ricordato prima. Anche in Fedro appare davanti agli occhi del lettore l'anfora e vi rimane grazie alla sensazione olfattiva che si sprigiona da essa, descritta con indugio piuttosto compiaciuto. Subito dopo, però, la Serofilli ricorre ad un'altra epifania, che in Fedro è assente. Si tratta proprio della vecchia, che Fedro ha quasi trascurato, finendo per identificarla con il gesto banale di fiutare un'anfora trovata non si sa bene dove. Nel testo della Serofilli abbiamo la fenomenologia fisica e psicologica della vecchiaia che viene abilmente concentrata in quel "ruga" che campeggia isolato a formare il quinto verso. Questa ruga sembra quasi un desolato canale in secca, dove la vita scivola nel perduto fluire degli anni, verso quel "fuga" che chiude la strofa, passando attraverso il suggestivo "sopite estasi" (notata l'allitterazione di "s" e "t"?), che sembra alludere a una vita di piaceri ormai irrimediabilmente dispersi.
L'interpretazione del brano fedriano non è univoca e l'autore nell'epimitio non ha contribuito a dissiparla. Nel testo fedriano, infatti, l'apologo termina con un unico, sibillino verso: Hoc quo pertineat, dicet qui me noverit, che ha dato luogo, per quel che ne sappiamo, a varie interpretazioni. L'ispirazione del brano, comunque, è stata concordemente fatta risalire al notissimo gruppo ellenistico della "Vecchia ubriaca", anch'esso oggetto enigmatico per gli storici dell'arte. Il messaggio di Fedro ci sembra consistere essenzialmente in una condanna moraleggiante dell'ubriachezza e della dissipazione, che portano verso la fine della vita ad un rimpianto stolido.
La Serofilli fornisce una sua interpretazione più indulgente: ha sviluppato una densa e malinconica riflessione sulla vecchiaia e sul tempo che corre veloce e l'ha collocata in un proprio lungo epimitio, ben più ampio ed esplicito di quello che Fedro ha voluto lasciarci. Al contrario che in Fedro, risalta qui una nota di profonda pietà umana, espressa con la metafora del "dente" dei piaceri. E' quasi superfluo ricordare anche in questo brano la sapienza dell'uso dei fonemi. Solo una breve osservazione: nella prima strofa prevalgono le consonanti continue "f" ed "s", che danno il senso del fluire dell'aroma del vino. Ad essi sono frammisti i suoni aspri e duri, come "k", "c", "g", che invece sembrano rendere la consistenza materiale dell'anfora.
Concludendo, ci pare che la Serofilli abbia prodotto un'altra raccolta capace di aprire valide prospettive emotive e artistiche.

ANDREA SALVINI



Sul significato del "doppio" nelle raccolte di Valeria Serofilli.

Abbiamo cercato in altra occasione di mettere in luce la particolarità e, diremmo quasi, il virtuosismo elegante della tecnica compositiva raggiunto dalla Serofilli nella rivisitazione delle antiche favole fedriane. La nostra oggi deve essere solo una breve testimonianza per allargare ulteriormente la nostra confidenza con i testi della nostra autrice.
Vorremmo quindi fare un passo indietro e soffermarci sulla prima delle raccolte uscite della Serofilli, ossia su Acini d'anima per poi passare rapidamente a Tela di Eràto e quindi tornare ancora su Fedro.
Sofferenza che disbrighi nel cuore… questo è, lo ricordiamo, il primo verso della lirica Acini d'Anima, quella che dà il titolo alla raccolta. L'Autrice comunica subito il senso di un dolore nascosto, di un dissidio segreto. Tale inquietudine, per non parlare apertamente di sofferenza del vivere, è reso evidente negli Acini, anche grazie al linguaggio "montaliano" coscientemente adottato, irto di suoni aspri che plasmano paesaggi ostili. Su questo, però, non ci sofferemeremo oltre. In molte delle liriche successive questo stato d'animo inquieto si traduce in un contrasto fra due mondi avversi e inconciliabili. Proprio il tema del contrasto fra due dimensioni diverse, che generano dissidio e inquietudine, prosegue e domina in tutta la raccolta. Consideriamo Eclisse e Tuo doppio, la terza e la quarta lirica della raccolta. Nella prima il sole e la luna si inseguono come i due amanti della leggenda di Ladyhawk sognando una fusione impossibile, o comunque rarissima come un'eclisse. In Tuo doppio invece il motivo del dualismo prende corpo in quello della maschera teatrale, da cui sembra sprigionarsi una riflessione sempre più inquietante fra ciò che si vede e ciò che non compare. Qui il contrasto richiama quello pirandelliano fra la ricerca di un apparire quotidiano che dia sicurezza, seppure falsa, e la ricerca di un'interiorità che dia senso. E' quanto emerge ancora in Mio padre, forse una delle composizioni più autentiche della Serofilli, dal momento che riflette il percorso interiore che tutti più o meno attraversiamo da quando nell'adolescenza entriamo in contrasto con le figure genitoriali, finché non le riscopriamo da adulti, magari avendo figli a nostra volta. Il senso di questa lirica si concentra nella simpatica e felicissima immagine finale dell'opposizione tra guscio e uovo: Mio padre: / credevo fosse guscio / invece è uovo, / di quelli giallo-arancio / al tegamino, / o a Pasqua da scartare: / perché di cioccolata / e con sorpresa!. Qui il senso del contrasto appare felicemente risolto, ma è un evento piuttosto raro nella poesia della Serofilli.
In Finestre vestite torna ancora il dualismo, enunciato chiaramente all'inizio, ciò che ci ha fatto pensare a questa lirica come ad una vera e propria dichiarazione di poetica: E' un patto tra due mondi: / tra me nella cucina e il gatto fuori. Il componimento si sviluppa poi sul senso di un'attesa che il micio di casa, simbolo a nostro avviso di una realtà indecifrabile, si decida ad entrare dal giardino nella cucina piena di odori rassicuranti. L'Autrice rimane a guardare la bestiola enigmaticamente immobile, da dietro le finestre, ma l'attesa è destinata a rimanere inappagata, ovvero la realtà non si rivela, come suggerisce appunto il verso: se apro non entra.
La raccolta si conclude con Scacchiera, che si ispira, come sappiamo, ad una delle più note liriche delle Occasioni di Montale. Ogni scacchiera è formata da un implacabile reticolo di quadretti chiari e scuri, da cui i pezzi non possono fuggire, ma solo giocare, o meglio, lottare per giungere, ma solo qualche volta, a fare scacco matto. La scacchiera che abbellisce i nostri soggiorni se rimane lì inerte, è un confortante oggetto quotidiano, ma se due persone decidono di usarla per la sua funzione, diventa un inquietante strumento di sopraffazione reciproca. Chi conosce il gioco della dama o quello degli scacchi, sa su quale sottile crudeltà esso si fondi nel duello fra l'angoscia di chi si vede mangiare un pezzo dopo l'altro e la gioia sadica di chi sente di prevalere ad ogni mossa.L'allegoria del gioco degli scacchi può riassumere così il filone del dualismo conflittuale quale ci è sembrato di coglierlo in tutti gli Acini. La scacchiera diviene così uno dei più riusciti fra gli oggetti epifanici di cui è ricca la poesia della Serofilli: come abbiamo avuto già modo di scrivere, le sue liriche più riuscite ci sembrano proprio quelle che scaturiscono dalla contemplazione di un oggetto, da cui scaturiscono profondi significati esistenziali, o, comunque, stati d'animo coinvolgenti.
Non ci soffermeremo a lungo in questa circostanza su Tela di Eràto, a nostro avviso la raccolta più complessa uscita sinora della Serofilli. Ricordiamo solo che nella nostra recensione uscita su Pomezia Notizie circa un anno fa avevamo già individuato un grande contrasto tematico che scorre per tutta la raccolta tra le poesie della prima parte, incentrate sulla solarità (Primo sole, Maggio, Estasi panica, Solleone, Ferragosto a sera) e quelle soffuse di tristezza e di un vago senso di morte incombente nella seconda (Melencolia, Pesce rosso, A Boris). E non dimentichiamo che a queste fanno seguito due composizioni dove è assente la luce solare, ossia Dobbiaco in passeggiata e la nota Tragitto. Avevamo notato inoltre come in non poche liriche ricorressero immagini e scelte lessicali che richiamavano ad un senso di divisione interiore (ad esempio: Volo scissa: / nel commiato alla vita mi dipano in Estasi panica).
In Fedro rivisitato il motivo del doppio assume proporzioni virtuosistiche, così come il fonosimbolismo su cui abbiamo scritto qualche riga tempo fa. Quasi tutte le favole rivissute dall'Autrice si reggono su un contrasto fra due esseri viventi o due momenti che entrano in tensione fino a quando avviene una rottura tragica o tragicomica. E' una vera e propria galleria di dualismi: vediamo il lupo e l'agnello in Falso pretesto, la cornacchia e i pavoni in La vanità della cornacchia, il cane alle prese con il suo riflesso in Il cane ingordo, la diversa utilità delle corna e delle zampe del cervo in Il cervo alla fonte, la grottesca gara della rana con un essere enormemente più grosso in La rana e il bue, lo scherzo incrociato tra volpe e cicogna in Pan per focaccia. Lasciamo ai lettori di trovare le altre, secondo noi felici, realizzazioni di questo tema del doppio nella raccolta. La nostra doveva essere solo una testimonianza, quindi ci fermiamo qui, invitando ancora una volta tutti a leggere o rileggere le raccolte della Serofilli, che, ne siamo convinti, anche in futuro saprà coinvolgerci e farci riflettere.
Andrea Salvini


 
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