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Ha il titolo di Verticalità la pubblicazione di Sandro Angelucci di cui ci occupiamo oggi, edita per i tipi di Book Editore di Ferrara nel settembre 2009. Si tratta di un’indicazione niente affatto casuale, ricca di richiami e di rimandi ai vari testi contenuti nel volume e a suggestioni ricche di significati allegorici.
Ripartito nelle due sezioni “Dell’anima e della ferita” e “Del cielo e delle parole”, già la prima sezione pone degli interrogativi, inducendo a riflettere sul senso e il rapporto dialogico e di contrasto interazione tra interiorità-esteriorità, anima-corpo, fulcro-involucro. Già la lirica eponima si pone a manifesto poetico dell’aspirazione principale dell’autore, di elevarsi al di sopra del contesto terreno e quotidiano, oltre la contingenza delle cose.
Non si tratta tuttavia di un percorso agevole, in quanto l’autore è conscio delle difficoltà che tale esigenza comporta, tuttavia possiede anche la tenacia sufficiente per proseguire idealmente tale percorso e perseguire il progetto.
<<E’ il mio bisogno di verticalità
che piange come un bimbo
che si perde
quando la morte vince sulla vita
ma subito sorride
all’apparire delle cose belle.
Sogno di cielo
che vince la gravità dei corpi
che a volte s’inabissa e poi risorge.>>
(da “Verticalità”, pag. 17)
Tuttavia questa tendenza alla sacralità non è poesia astratta e incorporea ma radicata saldamente al nostro tempo. Molti sono i riferimenti all’atto dello scrivere, come anche alla riflessione sul significato della poesia e della parola, che non a caso è citata esplicitamente come una delle due componenti essenziali del titolo della seconda sezione. La parola è lo strumento per tentare l’elevazione verso il sacro ma anche per riflettere sul nostro tempo e le due azioni sono in qualche modo complementari.
<<La mia ribellione
ha odore di fieno:
non mi prende alla gola
non mi spinge a tossire,
a sputare veleni.
Come rondine in volo
la mia ribellione ha bisogno di cielo
per sgranchirsi le ali
sfamarsi d’insetti, certo picchiare
sfiorare la terra
ma poi, planando,
riprendere quota, tornare a salire.
La mia ribellione
si ribella alla morte
di chi, a pieni polmoni,
respira lo smog degli odori stantii,
del corvo che vola sui tetti
e ingordo inghiotte le uova
degli ultimi nidi.
Nei bar, nelle strade, nei libri di storia
non si parla di lei:
la mia ribellione non urla
si chiama poesia>>.
(da “Ha odore del fieno”, pag. 26)
Per quanto concerne il lato linguistico, vi sono alcune assonanze tra Pascoli e Gozzano o comunque d’impostazione classica.
<<E la Terra sentii nell’Universo. / Sentii fremendo ch’è del cielo anch’ella, e mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle>>.
Questo il Pascoli dei Canti di Castelvecchio. Citando i versi della lirica “Come ogni giorno all’alba”:
<<Questa notte passerà
come tutti le notti sulla Terra.
Chi mi dirà, domani,
cosa sarà restato
delle sue stelle, della sua storia,
del suo mutarsi
come le altre in tempo?
(…)>>
(da “Come ogni giorno all’alba”, pag. 64
Una fede non semplice e non passiva, che sotto certi aspetti, anche se con le dovute distanze e con diversi percorsi individuali, può ricordare le riflessioni di Davide Maria Turoldo, in particolare la lirica “Dai ghiacciai delle stelle” di pag. 46.
Mi piace in questo contesto in qualche modo far mio quel che disse il filosofo irlandese Georges Bercheley:
<<Tutto l’ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra –insomma tutti quei corpi che formano l’enorme impalcatura dell’universo – non hanno alcuna sussistenza senza una mente>>.
Ed è una mente quella dell’io lirico, che s’interroga continuamente sul significato dell’esistenza e su quella ricerca che lo spinge a sconfinare negli abissi laddove la neve copre le distese.
Recita infatti la lirica di pag. 18:
<<Che cosa muove
il desiderio tuo, immenso
del ritorno,
la voglia di sconfinare negli abissi
quando da solo
tu ti ritrovi con la vita
e la parte più ignota di te stesso?
(…)>>
e ancora:
<<Io non sono qui.
Sono lassù,
dove la neve copre le distese
nell’abbraccio
che avrei desiderato,
dove il silenzio trova le parole
che avrei voluto udire.
C’è troppo chiasso qui
e poca neve:
ogni sguardo contiene mille sguardi,
in ogni uomo c’è spesso un altro uomo
e sono stanco
tremendamente stanco di cercare.
(…)>>
(da “Dove la neve copre le distese”, pag. 19)
Una mente che capisce che s’inizia a vivere quando non c’è più nulla da capire, come recita la lirica “Dove il limite si perde”.
Per concludere, questa recente pubblicazione di Sandro Angelucci, pur nella linearità dell’espressione che la rende fruibile e di gradevole lettura, contiene spunti di riflessione molto significativi e anche impegnativi con cui ciascun lettore, al di là delle proprie convinzioni, è chiamato a confrontarsi in un continuo accrescimento reciproco, tramite un rapporto dialogico per affinità e per contrasto, riguardo ai temi fondamentali dell’esistenza umana.
Valeria Serofilli
Ussero di Villa di Corliano, 12 Novembre 2011