I Quaderni di Poiein, Monografie di poeti contemporanei, Valeria Serofilli, 2010, Puntoacapo, editrice.
Va riconosciuto a Gianmario Lucini il merito dell’iniziativa: i Quaderni di Poiein, che per sua esplicita ammissione intendevano frugare il talento poetico oltre le personalità più in vista, per le quali talora la visibilità difetta di merito, non solo configurano un’iniziativa interessante, ma alla lettura si rivelano convincenti ed efficaci sul piano della qualità.
Gli autori finora selezionati appaiono di livello ed esemplare la loro presentazione in una cornice biografica, critica e bibliografica di ampiezza apprezzabile. La messa a fuoco comprende per ciascun poeta tutto il percorso della scrittura e pertanto ci viene ogni volta consegnata una monografia che nel contempo è silloge poetica e saggio critico.
Il secondo numero, uscito nel 2010, è dedicato a Valeria Serofilli, che si presenta con i testi inediti di Amalgama, divisi nelle tre sezioni: Morsi di Parola, Dantesche, La Chiocciola, le quali, subito, sin dai titoli, individuano per lei tre possibili filoni di indagine.
Il primo riguarda la rilevanza che lei attribuisce alla Parola sia come ente da manipolare per i suoi fini sia come frutto maturo del crogiolo letterario della tradizione, convinzioni che la inducono a un lavorio incessante su di essa, quasi un accanimento, prima di consegnare i suoi testi alla perfezione formale della pagina.
Al secondo punto poniamo il legame che la stringe ai grandi del passato, nella cui scia si pone. Li ama e non ne fa mistero.
Il riconoscimento del loro lascito formidabile la induce ad attingere, in una sorta di omaggio, alla messe letteraria per trasfigurarla e riversarla nella sua scrittura.
Infine, è possibile analizzare l’opinione che la Serofilli ha della condizione dell’uomo e soprattutto del poeta che possiede, con la Parola, il dono dello svelamento del reale.
Ovviamente la ripartizione ha valore esemplificativo ed è intuitivo che le tematiche in oggetto nelle composizioni s’intrecciano e divengono inestricabili l’una dall’altra, formando un amalgama come il titolo medesimo suggerisce.
Fortini espresse in un’intervista il sentire comune sul fare poetico, ritenendo che per un verso nella poesia prevalgono elementi di ritmo e cadenze, di ripetizioni, di immagini che alterano i significati immediati e che conferiscono loro, oltre i primi, anche significati interiori. Per un altro verso, si intende qualcosa di nobile, di rassicurante, di commovente…
Nella poesia della Serofilli i due ambiti, formale ed emotivo, sono equilibrati e convergenti. Non solo si tengono con naturalezza ma meritano la medesima attenzione.
Colpisce, come si accennava più sopra, il dominio che la Serofilli esercita sulla Parola, inteso proprio come esperienza di ogni possibilità lessicale, linguistica e metricoprosodica. Il lemma diventa creta, entra in una sorta di gioco.
Assonanze, rime, rime interne, allitterazioni (cito a caso da un solo testo: perfetto, astratti, misfatto, sottrarsi, petto, letto… Quell’imperfezione in più) si susseguono senza forzature nell’ambito del ritmo prescelto: una struttura, insomma, composita e musicale che applica ogni modulazione e guarda fiera al passato esigendone eleganza e ricchezza semantica.
L’interesse dell’autrice per Dante, ma anche per Leopardi o Luzi, come per tutta la poesia raffinata, fa capolino in veri e propri prestiti, talora visibili solo in trasparenza.
Pur senza poterla definire sperimentale, di fatto la lingua è piegata dalla Serofilli ai suoi intenti, in un impasto duttile e variegato, che applica, lo ripetiamo, ogni opportunità connessa al significante e alla percezione sonora dell’impianto.
Schivato il tranello del manierismo o dell’oscurità, la poesia della N. si staglia, al contrario, limpida nel suo mosaico di accordi, rime, risonanze che anche critici come Maffia hanno rilevato, definendo il suo verso una danza di parole affascinante e piacevole.
Ma la Parola per la Serofilli non ha solo valore estetico. Dal magma di parole intende far uscire il senso oltre che il verso e il canto.
La Parola, che è ente concreto, carne, legamenti, pane ingoiato dalla sua bocca vorace, dissetata solo da inchiostro, è mezzo di ricerca di sé e del mondo. Per l’essere imperfetto che abita la terra è l’unica strada capace di condurre alla verità. Non a caso il lemma senso, anzi la locuzione senso del verso ritorna più volte nella silloge.
In realtà la poesia della Serofilli parla per lo più del ruolo della poesia e del ruolo del poeta. È soprattutto metapoesia, ma nel senso nobile e spirituale del termine.
È poesia che si interroga sui suoi obiettivi e sul suo valore, quasi per confermare ulteriormente le proprie certezze sul dono ricevuto come poeta e sull’uso più appropriato di esso (ma noi/ la cui misura è l’imperfetto/ la ricerca intraprendiamo di quel senso/per rivestire larve di non detto).
Siamo ben lontani dalla cosiddetta poesia femminile intimista, lirica o peggio piagnucolosa perché non lo è. Non è neanche una poesia che scandisca gli accadimenti, ma essa, quando si riversa di fuori, incontra spazi ampi di cielo, luna e sole, o quelli dell’altrove.
Di tanto in tanto fa capolino un amore, un interlocutore, ma non è mai preminente se non come punto di riferimento della propria riflessione.
La poesia salva, perché è in grado, almeno per il poeta, di autenticare la propria presenza sotto la volta del cielo. Anche se il poeta non è il vate, la poesia è sostanza tangibile del mondo e mezzo per definirlo.
Tra noi poeti basta quell’occhiata
e la realtà diventa un’altra cosa
riscritta amata/ sedotta ricreata
In questa accezione, essa è, la chiave per dissipare il velo di Maya, l’ascia per rompere il guscio da chiocciola che ci circonda e impedisce la nostra possibilità di conoscere, dando l’opportunità all’anima di ridestarsi e comprendere. Si adombrano echi di Schopenhauer, ma si potrebbe forse meglio utilizzare il mito della caverna di Platone, giacché l’autrice nomina in una sua composizione proprio la caverna (Fuor di caverna/ illumino e traduco/ ilbuio ai tuoi occhi:/ vedo oltre//oltre vado. Compito di poeta) ma il risultato è lo stesso.
Il poeta, se valido, possiede l’arma per dipanare le immagini false e ingannevoli, il riflesso della realtà che si percepisce sotto forma di ombre sul muro della grotta-prigione, per distribuire il pane-parola della verità. Non a caso l’autrice scrive:
Botte di Diogene, la verità nel profondo.
E tu poeta non farti lumaca
nel tuo guscio
se a sfiorarti è mano di poesia.
Tutte le domande e i dubbi che il secolo appena trascorso si è posto sulla possibilità di fare poesia in un’epoca che non predilige la parola, veloce, violento o tecnologico in senso lato, sono superate.
Adorno considerò che dopo Auschwitz, la trascendenza non offre più all’immanenza alcun significato e quindi a questo punto è diventata impossibile anche la poesia, ma nella silloge troviamo la convinzione opposta di un’arte poetica rivelatrice e consolatrice, una scintilla metafisica destinata agli eletti: un concetto condiviso da Luzi, tanto amato dall’autrice, espresso con queste parole: nulla più che la poesia credo abbia valore… di risveglio della coscienza. La poesia ha il potere di chiamare l’uomo a se stesso… perché si insinua nella cultura di un’epoca e la lavora. Con termini simili si espresse anche Magrelli quando affermò che qualsiasi cosa accada alla storia la poesia non smetterà mai di testimoniare i battiti del tempo umano.