Il mio contributo in questo contesto consisterà in un Omaggio poetico al celeberrimo canto V dell’Inferno. Credo non vi sia migliore premessa per una breve considerazione sul canto di Paolo e Francesca che muovere dalle parole introduttive del celebre saggio “La Francesca da Rimini” di Michele Barbi secondo cui nessun episodio ha dato luogo a tante e si diverse ricostruzioni critiche come quello di Francesca e Paolo. Il Barbi inoltre, come sottolineato da Roberto Pacifico, evidenzia la contraddizione tra la condizione di peccatrice e di dannata che il poeta attribuisce a Francesca e il profilo che egli ne offre.
Pochi canti danteschi come il V dell' Inferno infatti sono stati letti, discussi, analizzati, rivissuti e, a volte, anche traditi. In pochi altri testi letterari ci troviamo a confronto con il dissidio fra l'abbandono, che pare così ovvio, alla più travolgente delle passioni umane e le sue possibili rovinose conseguenze, tra cui, la più terribile, consiste nella dannazione eterna. Ha talmente esercitato da subito il suo fascino sui lettori da diventare uno dei canti più letti e diffusi anche prima del completamento della Divina Commedia, come ha mostrato la ricognizione di uno dei "Memoriali bolognesi" risalente al 1304. I critici si sono divisi a lungo su di esso: Canto dell'amore o canto della pietà? Il Caretti trovò una brillante soluzione critica: amore e pietà sono due "parole tema" che non hanno un vero significato se considerate separate, ma che si rafforzano potentemente se viste l'una nell'ottica dell'altra. Il Canto genera il senso di una scissione dolorosa e mai pacificata. Paolo e Francesca sono uniti per sempre dal loro amore, ma in questa unione non troveranno mai pace. L'amor cortese che anche Dante ha sentito come fonte di elevazione spirituale e di poesia nella sua giovinezza, fallisce clamorosamente di fronte alla condanna divina, come un sogno che svanisce quando si viene destati da un evento catastrofico. Dante personaggio del Canto rivive in sé la sua stagione creatrice giovanile e sembra non accettare questa condanna: prima si turba sempre più e alla fine sviene, tronca il confronto, quasi si autocensura probabilmente per accettare la condanna divina senza esprimersi contro di essa.
Il testo che vado dunque ora a proporvi è tratto dalla sezione Dantesche contenuta in Amalgama, Valeria Serofilli, La parola e la cura, ne I quaderni di Poiein” edito da Puntoacapo nel 2010.
Come dice Gian Mario Lucini curatore del quaderno, io non sono una scrittrice tematica, non costruisco una raccolta intorno ad unico tema, da qui nasce l’esigenza di articolare il volume in numerose sezioni, per contro ben articolate e concluse in sé.
E la raccolta Amalgama si articola infatti in tre sezioni di cui la seconda, Dantesche, intende porsi come una rilettura in ottica personale ed individuale di alcune delle vicende più toccanti narrate in versi nella Divina Commedia (Paolo e Francesca ma anche Ulisse, Il Conte Ugolino,Pier delle Vigne).
Paolo e Francesca
(Inferno, canto V)
Lo sguardo complice
il furto di una vita
in quella mela / labbra rosse
Adamo ed Eva
clonati dal peccato / prima radice
rinati pallidi dalle pagine
di un libro, da quel bacio
unico / sia pur imitativo
A tanta passione / troppa condanna
Con Dante io vi comprendo!
In questa mia lirica ho inteso riproporre il dramma dei due cognati, con uno stile giocoso e insieme pregnante. All'inizio i due appaiono come due ragazzi birichini che progettano di rubare una mela: è il furto di una vita, quasi un gesto che segna il passaggio alla vita adulta, o, forse, una liberazione da un ambiente familiare costrittivo. Le labbra rosse di Francesca diventano un altro frutto proibito, come quello gustato da Adamo ed Eva. La novità di questa lirica consiste, a detta di alcuni critici tra cui Andrea Salvini, forse anche in questa assimilazione di Paolo e Francesca con Adamo ed Eva. In una chiave moderna i due Romagnoli diventano i cloni dei Progenitori, rinati attraverso un libro, il romanzo arturiano che stavano leggendo insieme.
A ben guardare , però, il mio intento è stato quello di ricreare, nel breve volgere del testo, quel senso di scissione insanabile che abbiamo visto essere una delle caratteristiche del Canto dantesco, senza sfuggire, come fa il Dante personaggio, alla espressione libera di una non accettazione e intendendo cogliere, nel contempo, quello che il Poeta non ha voluto dire: Con Dante io vi comprendo!
Concordo dunque col Bardi che la condanna possa suonare beffarda in quanto essi in fondo non hanno seguito che l’impulso irresistibile dell’amore che nasce dalla visione della bellezza dell’uno e dell’altro: può bastare un solo gesto, una parola, uno sguardo, per scendere nell’abisso, ed è quello che successe ai due amanti v 132-138 ma solo un punto fu…”
Quel giorno s’interruppe e per sempre la lettura del libro galeotto.
Valeria Serofilli