L'abilità di un autore spesso consiste nel descrivere il particolare facendolo apparire universale partendo da un dettaglio o un primo piano per poi fare percepire, in un'ampia carrellata, o in un flash improvviso, la visione d'insieme. Questi meccanismi li ha applicati con efficacia Andrea Percivale nel suo romanzo Le nozze di pietra pubblicato da Leonida Edizioni nel 2013.
Il racconto parte proprio da un primo piano dello sposo e della sposa, colti nell'atto di entrare in chiesa, avvolti o meglio presi di mira dagli sguardi dei parenti e degli invitati spesso non certo benevoli come leggiamo ad apertura del primo capitolo:
“Appena entra lo sposo le voci degli invitati nell'abbazia diventano un brusio uniforme, che tende a sfumare velocemente. Quando il violino inizia a suonare, accompagnato dall'arpa, la chiesa è già in silenzio. Lui avanza in tight, con il sorriso stampato nella faccia poco emozionata. Regge senza attenzione la mano della madre, strozzata in un tubino verde acqua e appesantita sulle guance e sugli zigomi da una dose eccessiva di fard. Nel momento in cui arriva sotto l'altare Luca, richiamato dai suoi testimoni, fa una leggera torsione del busto e punta l'ingresso.
Il chiarore del sole riempie i gradini esterni e raggiunge le ultime sedie dell'abbazia e la cassetta per le offerte. Dall'ingresso spunta la sagoma di Letizia, ben delineata nei suoi contorni per la mancanza di veli o gonne ingombranti. Cammina sicura in un abito color panna, sobrio, leggero, che termina all'altezza del ginocchio. Ogni gesto è ricco di grazia, ben coadiuvato dall'innata eleganza del padre, un uomo alto e magro, con il naso adunco e un'espressione da tè alle cinque e caccia alla volpe.
- Guarda che bel sorriso la sposa - dice una zia di Letizia alla propria famiglia.”
Il taglio cinematografico della narrazione emerge quindi fin dalle pagine iniziali per poi proseguire costante e coerente, fino al termine del libro. Uno spaccato di una città, Genova, di respiro lungo e mondiale, aperta da sempre a camminare e viaggi e mondi da ospitare, eppure anche chiusa in se stessa, microcosmo concentrato su un nucleo da case e di persone che custodiscono segreti, conoscenze, gelosie e rabbie, cibi e dialetti che escludono chiunque sia forestiero.
L'idea di base del romanzo, quella legata alle nozze, si adatta alla perfezione a questa natura duplice e ambigua della città. Le nozze sono trionfo del sacro ma anche del profano, della famiglia ma anche della mondanità, degli affetti, ma anche dei rancori e degli odi.
Il quadro si fa ancora più variegato grazie al legame che l'autore crea tra le storie, apparentemente autonome, fatte ruotare attorno all'evento del matrimonio a cui si è fatto cenno. Non è il caso di rivelare la trama dei dettagli, per non togliere il gusto della scoperta autonoma, ma è possibile dire che il tema dominante è quello della giustizia, legato a doppio filo a quello correlato da sempre, il filo della sorte, del destino. Il destino che viene a bussare alla porte, ospite non invitato ma inesorabilmente presente, e reclama il cibo più amaro e schietto, la verità. Proprio nel momento della celebrazione e del fasto, la sorte presenta i conti, quelli in sospeso da tempo, quelli che sembravano dimenticati o archiviati.
Il linguaggio adoperato da Percivale è brillante, mai puramente denotativo, ricco di metafore che spaziano in ambiti diversi. Il passo è rapido e fluido, ma, allo stesso tempo, c'è il gusto del dettaglio, quella sfumatura che rafforza una sensazione o uno stato d'animo e consente al lettore di penetrare a fondo nei meccanismi psicologici dei personaggi.
Tra i vari esempi dei possibili, l'intenso dialogo di pag. 107 e oltre, in cui si discute sul senso di chiedere clemenza, agli uomini e al destino.
I gesti del personaggio Marco, le mani che si nascondono e frugano nelle tasche, sono specchio dell'agitazione profonda e riflettono il senso generale, quasi di impronta alla Dostoevski, di questo romanzo che partendo da un evento mondano quale le nozze, scava nella psiche dei personaggi e indaga sul significato profondo della responsabilità verso gli altri e verso noi stessi.
Il tutto su uno sfondo credibile, la città di Genova che funge da labirinto verticale, quasi a rafforzare l'idea della gabbia, il processo kafkiano che ognuno di noi, presto o tardi, con sé o con il mondo, è tenuto a sostenere.
Valeria Serofilli
Il romanzo di Valerio De Nardo abbina una scorrevolezza di taglio giornalistico con una cura del dettaglio ed una accuratezza sintattica e lessicale di notevole valore letterario. Profondo Jonio pubblicato da Leonida Edizioni nel 2013, trasmette un senso di appagamento tipico di tutto ciò che viene prodotto con zelo e passione ma senza fretta, senza la frenesia dell'usa e getta.
L'autore, legato al mondo letterario da interessi costruttivi e collaborazioni di valore, ma anche in tutt'altre faccende affaccendato, ha potuto concedersi e concederci il tempo per raccontare con la giusta cura, con il gusto di togliersi molti sassolini dalle scarpe, un mondo che conosce bene, in cui è immerso ma non sommerso.
In grado, quindi, di fotografare, senza farsi annegare da certe acque non propriamente limpide.
Il romanzo descrive ambienti sociali, politici e umani dominati da meccanismi perversi, leggi non scritte, compromessi atavici. Ci dice che, sulle rive dello Jonio, ma non solo, vige ancora la gattopardesca regola del “tutto cambia perché niente cambi”. La citazione permane, immutata. Il valore aggiunto di questo lavoro narrativo di De Nardo è nella capacità di ibridare adeguatamente una vicenda personale, quasi un romanzo di formazione, con il ritratto fedele di una regione geografica mostrato in un'epoca storica ben definita. Il passo ulteriore, e di maggiore portata, è quello di fornire un quadro più esteso: l'Italia nel suo insieme, con i mali radicati, le clientele, gli affari, i servilismi, le molte miserie e le tenaci nobiltà residue. Come corollario ulteriore, una disamina cruda, ma non priva di ironia, dell'uomo in generale. L'essere umano come animale eternamente a metà strada tra il sublime e becero, fango e tentativo di volo. L'ironia di De Nardo non è mai smaccata o eccessiva; è, piuttosto, un umorismo di radice quasi pirandelliana, un sentimento del contrario che si articola in questo romanzo in mille rivoli, tra conversazioni riportate con esattezza, spesso utilizzando anche brani in dialetto, per ottenere una vera somiglianza ancora maggiore. E' abile De Nardo anche a mutare prospettiva, spostando l'ottica ora sullo sfondo di un'epoca che annichilisce i sentimenti genuini e le sensazioni autentiche, dall'altra messa in parallelo ed in contrasto, una storia d'amore e gli stati d'animo veri del protagonista.
Tra i tanti esempi possibili, le pagine iniziali, quelle in cui si narra dell'incontro con Eleonora, la giovane donna che entra nel cuore e nei sensi della voce narrante (si vedano al riguardo le pagine 12 - 13 e oltre).
Ma l'alternanza tra la descrizione del mondo interiore e quello esteriore è costante, e sempre ben condotta.
Le scoperte individuali si affiancano alle trame della storia. Quella spesso aliena, aggressiva, inumana.
Un romanzo da leggere con cura e con gusto, proprio per la sua natura duplice di documento di un mondo e di un'epoca e, sul fronte opposto, di vicenda personale.
Conferma decisa della tenacia della persistenza di ciò che vale nel marasma di ciò che il tempo e le miserie della politica ci danno in pasto.
Valeria Serofilli
Caffè dell'Ussero di Pisa, 16 Maggio 2014