Nota di lettura al volume Radici perdute (Kaírós Edizioni, Napoli 2009) di Franco Santamaria.
Sono perdute le radici di cui parla Franco Santamaria in questo volume recentemente pubblicato per i tipi di Kaírós Edizioni di Napoli.
Perdute e non smarrite, come la dantesca via sfociata nella selva oscura. La visione del mondo dell’autore è lucidamente realistica e la carica di denuncia presente nelle sue liriche non concede spazio a facili compromessi, neppure allegorico – metaforici.
E’ tuttavia adeguata e proficua a molti livelli semantici, la scelta di Franco Santamaria di adottare il simbolo antico e privilegiato delle radici, innanzitutto per il collegamento diretto e visceralmente profondo con la terra, la Madre Gea, la materia viva e pulsante, il ciclo delle stagioni, le nascite e le morti.
In secondo luogo, ma in maniera non secondaria, il riferimento alle radici apre prospettive di rinascita, di nuove crescite, di nuovi suoli e su nuove speranze.
Non c’è contraddizione tra le due dimensioni, quella concernente l’osservazione attenta e puntuale dello stato delle cose e dei tempi, cupi, disarmonici, poco umani, e, sul fronte opposto, lo spiraglio aperto verso prospettive nuove, più favorevoli e feconde.
L’osservazione della natura e dell’uomo sono i due cardini dell’ispirazione di Franco Santamaria e non è un caso che in una dimensione si rispecchi l’altra: la solitudine umana trova eco e specchio nei veleni e nelle ferite che sono state subite dall’ambiente.
“Cadono alberi” è il titolo perentorio, secco come un colpo di scure, di uno dei componimenti. Gli alberi si fanno pietra, come le mura, come i palazzi in cui gli individui racchiudono le loro solitudini e le loro frustrazioni:
Cadono alberi
a radici spiantate dal vento.
(…)
Sulle ali del fiume
altri alberi sono già pietra,
il loro nome
è spento.
(da “Cadono alberi”)
Una delle liriche più significative della raccolta, dal titolo “Per quanto e perché?” trova spiegazione emblematica nella domanda che il poeta pone a se stesso: ”Non saper quanto e perché scriverò versi / alla vita”, ossia si consuma in questo dilemma la chiave di volta sia del libro sia dell’attività stessa della scrittura, dell’affidare pensieri alle parole, specchio dell’anima,“ Sermo imago animi est: qualis vir, talis et oratio est”per dirla con Pubilio Siro( Sentenze, 1073).
Non so per quanto e perché scriverò versi
alla vita
ai suoi brevi trionfi
alle sue estensioni circolari e profonde
alle sue vittime forme indifese
su altari di pietra vulcanica
nera e rossa ,rossa di sangue.
(da “Per quanto e perché?”)
Tra i due estremi, resa e speranza, il poeta si trova incerto, sconcertato, ma alla fine la scelta è netta, coraggiosa e ineluttabile: quella di regalarci un nuovo scrigno di saggezza e di poesia.
Valeria Serofilli
Pisa, Caffè dell’Ussero 25 Marzo 2011