Nota di lettura (.pdf) di Valeria Serofilli al volume La grazia sufficiente (Campanotto Editore, Pasian di Prato-Udine 2010) di Giancarlo Micheli.
E' uno scorcio del medioevo giapponese questo recente romanzo di Giancarlo Micheli, pubblicato nel 2010 per i tipi di Campanotto Editore di Udine. Un medioevo orientale contrapposto ma anche messo in parallelo rispetto all'Europa del Cinquecento, devastata dai conflitti religiosi.
Già il titolo stesso del volume ci fornisce una preziosa indicazione riguardo al contenuto: la grazia sufficiente, quella grazia mai negata a chi la chieda e con il cui aiuto l'uomo può sanare il disordine morale. La suddetta grazia costituisce anche l'elemento di connessione e il punto di arrivo auspicato delle due vicende di cui si compone la trama, molto diverse tra di loro nel tempo e nello spazio. L'abilità di Micheli consiste nel rendere credibile la storia tramite citazioni precise di vocaboli propri della lingua giapponese dell'epoca, di luoghi, situazioni e oggetti tìpici dell'ambiente descritto e dell'epoca prescelta, vale a dire l'arcipelago giapponese del medioevo. (Tra i tanti esempi: Komon, torii, shogun, il teatro del nò, la scrittura kanjì, shite, waki, yugen, musubi).
Se da un lato è vero che l'utilizzo di queste terminologie rischia di complicare l'assimilazione e l'interiorizzazione del testo da parte del lettore, è altrettanto vero che l'abilità dell'autore riesce a rendere credibile la vicenda in virtù di un valido intreccio narrativo e dell'abbondanza di dettagli e descrizioni.
<<Un lampo sottile si distese, si distaccò trasversalmente dal fiotto giallognolo della lampada e fendette il suolo con una candente crepa, che la densa pece della notte rimarginò all’istante. Avevano raggiunto i binari della linea ferroviaria da Ryo Jun a Mukden. Entrambi ripassarono mentalmente le operazioni che avrebbero dovuto compiere. Ormai non più di cinque ken li separavano dal loro obiettivo. Tanto misurava l’orto della famiglia di Taisho, nel villaggio di Mogi, dall’argine del fossato alla casa dal tetto ricoperto di frasche; e non senza affanno Taisho colmò quella minima distanza.
In quel momento sua madre era, senza dubbio, inginocchiata di fronte al butsudan, o quantomeno legittima era la supposizione del figlio di immaginarla là. E proprio l’immagine della madre raccolta in preghiera occupava la mente di Taisho nel momento in cui egli dette di piglio alla pala e iniziò a scavare tra le traversine del binario, sotto le quali si accingeva, con l’ausilio del compagno, a piazzare la carica esplosiva. E il disco lunare del volto materno declinava sotto la curva delle prostrate spalle, mentre le labbra mormoravano una lode al Buddha Amida. Nel distaccarsi dalle labbra, dipinte di un carminio naturale e risaltanti sui bianchi cretti delle rughe che le attorniavano, nel distaccarsi le sillabe prendevano la forma di un vortice o di una spirale, entrambe con gli assi di simmetria giacenti nella rabbrividita notte mancese, esattamente sovrapposti allo spazio occupato dalla colonna vertebrale di Taisho, attorno alla quale avvolgevano una supplice vibrazione, cosicché il giovane guastatore ne riusciva protetto, blandito da un sentimento augurale e benevolo.
Si era fatto, attorno, un silenzio denso, quasi palpabile. Spioveva adesso sui gesti frettolosi dei soldati che, una volta piazzata la dinamite, ora si allontanavano reggendo tra le braccia il detonatore. Il paesaggio era svanito nei riflessi di un gelido cristallo, impenetrabile alla vista, del quale il freddo affilava gli spigoli, li configgeva sotto le intrise uniformi dei soldati, nella pelle assiderata e livida. Le consegne prescrivevano che i due attendessero l’arrivo del treno diretto a Mukden e che la carica fosse innescata quando il locomotore fosse giunto a un cho dal luogo dell’esplosione, affinché il macchinista non avesse il tempo per arrestare il convoglio. L’attesa parve interminabile, scandita dal tremito insistente delle mascelle dei soldati, che mordevano l’aria agghiacciata con metronomica paratassi. Taisho pensò ancora alla madre. La immaginò mentre teneva sul palmo della mano la ihai, sulla quale un monaco buddista aveva scritto il nome che Shigetaro aveva preso dopo la morte. La vide avvicinare agli occhi la tavoletta e annodare attorno ad essa un biglietto di carta di ibisco. Senza dubbio era un voto offerto affinché il figlio le tornasse vivo dalla guerra; Taisho ne aveva opprimente cognizione, unita alla lucida coscienza dei propri gesti che, con solerte automatismo, approntavano l’imminente esplosione.
Giacché gli ottativi dell’anima si avverano soltanto qualora la fede, o la persuasione, siano abbastanza salde da ricomporre le contraddittorie macerie della volontà, Taisho si astraeva dallo spazio fisico che lo separava dalla madre, con tale intensità, e incrollabile, da figurarsi distintamente la schiena di lei, che si inarcava e tornava a prostrarsi dinanzi alla statua del Buddha, con ossequiente ostinazione. Cosa era cambiato da quando Taisho era stato bambino, accovacciato assieme ai genitori davanti al povero desco, oppure in preghiera davanti al piccolo altare domestico? La madre raccoglieva dalla mensola del butsudan una ciotola di riso e si voltava ruotando sulle ginocchia, con senile indugio. Il movimento di lei, tuttavia, non era appesantito dall’oneroso e ovvio vincolo della gravità, i geta non compulsarono sulle tavole del piancito con la goffa sollecitudine necessaria ad impartire alle anche l’opportuna torsione; pareva piuttosto che ella galleggiasse nell’aria ombrosa della stanza, sostenuta da fili invisibili, quasi che la volontà di lei si trasmettesse al corpo non per la tribolatoria via di nervi e muscoli, ma secondo una più ineffabile intenzione, se non trascendente quantomeno impersonale, cosicché infine si arrestò, la ciotola sollevata in alto e il capo nascosto tra le braccia protese, e fu immobile, circonfusa dalla serena levità che l’artista ritrova nell’eidetico equilibrio del soggetto di cui coglie la forma da sottrarre all’ottusità del reale, ridisponendo ogni parte della sua composizione nell’armonia di una nuova specie di necessità, che va portando alla luce. Nel movimento di lei, lento e deciso, al compiersi del quale, adesso, offriva il dono che la pianta del riso aveva distillato dall’acqua e dal fango, nel movimento di lei si librava la quiete di un limpido mattino, quale in un paesaggio del monaco Sesshu ne galleggiano di alte colline, al di sopra di un ristoro di acque placide, prolungati fino ad un’estate che è la stessa ed è un’altra, come la collina riflessa nella mano dell’artefice. Un’impreveduta brezza emerse dalla crespa superficie marina, di intenso azzurro, e accarezzò il volto pallido della madre, le sciolse il nodo che raccoglieva i capelli dietro la nuca, cosicché la loro erba corvina si dispiegò nell’aria, culminò ad indicare un luogo assente e, mentre il soffio del refolo si sfaceva con un fremito stordente, i capelli ricaddero, inerti, sopra la seta del kimono.>>
Tale complessità, sia dal punto di vista della trama che della ricerca e conoscenza approfondita del mondo storico e sociale del periodo giapponese antico, pone il romanzo in controtendenza rispetto a tanta narrativa minimalista e improvvisata.
E nonostante l'autore parli di due vicende ben definite e circoscritte dal punto di vista cronologico, non siamo tuttavia di fronte ad un saggio storico ma ad un'opera narrativa che si presta ad essere attualizzata in quanto il lettore moderno si può identificare per la vicenda umana narrata, il rapporto con la natura, la profonda ricerca del significato dell'esistenza, nonché il principio secondo cui "chi accoglie un beneficio con anima grata, paga la prima rata del suo debito" (Seneca, De benefìcis, II, 22, 1).
Dal punto di vista linguistico, la ricercatezza e la forza evocativa del linguaggio, contribuisce a conferire alla narrazione quell'andamento e ritmo di classicità e quella patina arcaizzante, calando la storia nell'epoca: «Lungo la baia, sul fluttuante specchio lambito dai raggi del sole equinoziale...» (dal prologo) e ancora «(...) principiava un camminamento »(p. 53); «II torpore del sonno gravava le membra... (p. 97).
Non si tratta comunque unicamente di un romanzo di riflessione filosofico-esistenziale, ma che propone anche numerosi eventi storici ed un'azione ed avventura vivace ed intensa, basate anche su viaggi, battaglie e incontri vissuti dai vari protagonisti.
In quest'ottica possiamo parlare di commistione fra vari generi letterari riuniti in una trama fluida e accattivante, frutto della sensibilità e bravura di Giancarlo Micheli, autore che propone un tipo di narrative del tutto originale che fanno di lui una voce riconoscibile nel panorama letterario contemporaneo.
Valeria Serofilli
Pisa, Storico Caffè Letterario dell’Ussero, 27 Aprile 2012