Nota di lettura di Valeria Serofilli al volume Astolfo e dintorni (Edizioni Il Filo, Roma 2007) di Maria Giovanna Missaggia.
Il titolo del volume di Maria Giovanna Missaggia Astolfo e dintorni, è già un primo interessante segnale: rende chiara la necessità della cooperazione del lettore, la voglia di esplorare, la sete di conoscenza, la curiosità, il coraggio di viaggiare verso la luna per scoprire in realtà la terra.
La meraviglia, la capacità di sorprendersi e di interrogarsi è una componente essenziale di questo libro, sul versante della scrittura e della ricezione. Ma si tratta di una meraviglia, quella dell’autrice, molto conscia, vigile, accorta, collocata nella zona di confine tra mente e passione, ragione ed emozione. Il risultato, presente in varie pagine del libro con diversa intensità e tensione, è l’ironia come analisi a tutto tondo, in grado di cogliere e conciliare aspetti a volte contraddittori, gli opposti che arrivano a coincidere. L’ironia, in questo caso, rappresenta e prefigura una più profonda adesione al reale, una visione globale dell’oggetto del pensiero tramite lo scandaglio privilegiato della parola.
Ogni pagina, ogni verso di questo libro, appaiono allo stesso tempo immediati e meditati: contengono il risultato di una conciliazione tra levità e profondità. Non c’è mai un vuoto compresso, pesante e pedante, o una successione di filastrocche scontate: c’è, al contrario, un modo lieve ma corposo e coinvolgente di porsi domande essenziali, ineludibili, senza mai pontificare e senza imporre verità ma, piuttosto, nel gioco della mente che esplora con passione i suoi domini, intuizioni di umana e genuina esistenza e resistenza.
Questo emerge dalla lirica I poeti ascoltata in apertura, che rappresenta una sorta di accurato exursus autobiografico delle varie tappe della formazione letteraria e umana dell’autrice.
Nella nota posta all’inizio del libro come premessa illuminante Maria Giovanna Missaggia dimostra e conferma una consapevolezza attenta ed autentica del valore della parola poetica. Dichiara di non essere certa di poter definire “poesia” i suoi scritti, preferendo piuttosto attribuire loro la vox media di “spunti meditativi”. Una tale asserzione dimostra una rara autoironia e, è bene ribadirlo, una consapevolezza del potere e del valore sacrale dell’arte. Tocca allora al lettore, dopo aver assaporato la cura e l’efficacia con cui ogni verso di questo libro sono stati concepiti e realizzati, affermare che si tratta in realtà di poesia vera, onesta, di sicuro interesse.
La lirica che apre il volume, Canto, contiene echi di Walt Whitman, ma accanto allo stato d’animo di immedesimazione panica con il mondo, con il complesso vario e multiforme dell’esistenza, c’è, nella poesia della Missaggia, anche la cognizione del dolore, la certezza che, dopo le tragedie del nostro tempo, la terra è stata resa “gravida / di passione / ostinata di infinita / sofferenza “.
Caratteristica fondamentale del libro, di particolare coerenza, è la capacità mimetica del linguaggio, in grado di adeguarsi volta per volta, a livello di ritmo e di tono, al tema trattato nelle singole liriche: dalla frammentazione ricomposta verso dopo verso della poesia Creta , alla suadente armonia, quasi sussurrata con dolcezza del testo A mia figlia, quasi classico d’impostazione, e concluso con un verso sillabato, solenne nella costruzione: “Sublime mia fanciulla”.
Ma già nella pagina successiva, Ipponatte, il tono si fa aspro, duramente meditativo e icastico: “Tu fosti il primo / fallito della storia: / a noi / vermi di rado dischiusi / in angelica farfalla / non restò che correre / su e giù / sul Tuo pianeta a palla”. Una riflessione che parte da un racconto per poi giungere a considerazioni di più ampia e fondamentale natura filosofico esistenziale.
Nella lirica Tre doni è contenuta una distinzione di sicuro rilievo tra dolore e sofferenza: quasi che il dolore fosse spesso considerato dolore altrui, qualcosa di estraneo, di difficilmente comprensibile. L’interlocutore diventa allora difficile da contattare, distante, complesso: “Hai concepito il mondo in uno spasimo” è il grido della voce narrante. “Da allora l’amore / dobbiamo strappartelo / ed è nulla / per compensare i milioni / di esseri ignudi / che senza difesa / - inutilmente - / hanno sofferto”. Nel finale della lirica compare uno degli elementi portanti del libro, quasi un tematico filo rosso”: “ è solo l’amore / dell’uomo all’altro uomo / il mezzo per farti / di vendetta dono”.
Per concludere se “l’Ariosto suscita e foggia egli stesso la materia del suo poema trasformando così il poema cavalleresco in romanzo contemporaneo, nel romanzo cioè delle passioni e delle aspirazioni degli uomini del suo tempo”, così l’autrice trae spunto da questa fonte privilegiata per piegarla a esigenze poetiche contemporanee.
Valeria Serofilli
Pisa, 8 Maggio 2009