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Venerdì 3 Giugno 2016 Valeria Serofilli e Andrea Salvini incontrano gli autori Achille Concerto, Elisa Scotto e Alessandro Da Soller.

Incontri al Caffè dell'Ussero di Pisa > Incontri Letterari 2016
Nella foto: Elisa Scotto, Achille Concerto e Valeria Serofilli

ACHILLE CONCERTO, La tela e il trono, Leonida Edizioni, Reggio Calabria, 2015

Il lato maschile e quello femminile, Marte e Venere, i due versanti del mondo, della Storia e della vita, indaga Achille Concerto in questo libro. Con il solito piglio da narratore ma anche da studioso, soprattutto della Storia, sia quella con la maiuscola che di quella solo apparentemente minore, in realtà altrettanto significativa, e forse (dal punto di vista dell'indagine psicologica e antropologica, e  per tentare di risolvere il mistero dell'esistenza umana), perfino più utile come materiale grezzo su cui lo scrittore lavora, con pazienza di archeologo, togliendo via la polvere e cercando segni in grado di rilevare sensi, significati.
La tela è Penelope, l'attesa, la pazienza, la speranza. Il lato femminile della luna, anzi della terra, delle mille ferite del tempo, delle battaglie, della furia cieca che attraversa e lacera i secoli. Il trono è il potere, la sete di conquista e di dominio. Fosse pure il dominio della conoscenza, la curiosità che porta a superare le colonne d'Ercole dei mari e della mente, verso territori sconosciuti ancora da esplorare. In questo contesto e in questo ambito il trono è quello di Ulisse. Ma, come scoprirà chi leggerà il libro, niente è unico e lineare nelle pagine di Concerto, tutto è più sfumato e dominato da una sete di cogliere soprattutto le ambivalenze, non di rado le contraddizioni, dei tempi, degli eventi e degli uomini.
Non è un caso che il sottotitolo del libro sia “L'altro sguardo di Penelope”. A sottolineare una dimensione ulteriore, una traiettoria avulsa e distante dalle strade, anche narrative, già troppo solcate in precedenza. Come osserva Maria Luisa Neri nella colta e convincente prefazione, nel libro di Concerto la figura tipica di Penelope “lascia spazio ad una donna, prima che ad una moglie, che si pone e pone interrogativi, che cerca spiegazioni, che conforta e si lascia confortare, risoluta ma anche sgomenta davanti alle astuzie di Odisseo e ai tradimenti delle donne della sua casa”. Una figura più complessa, dunque, a tutto tondo, non solo un'icona perfetta ma asettica di fedeltà cieca. Penelope ragiona, ed ha uno sguardo individuale, che sonda e scava, sul senso della guerra e della violenza, la cui presenza pervade costante come un nero spettro l'intero libro.
Concerto è partito da uno studio appassionato dei testi classici sul mito di Ulisse e delle sue lunghe peregrinazioni, per poi giungere, gradualmente, al termine di un lungo processo di assimilazione e di rianalisi e rilettura, ad un testo del tutto autonomo, con un taglio personale e riconoscibile. Il mito è servito come punto di partenza per un viaggio che, percorrendo le stesse rotte, incontra tuttavia diverse angolazioni ottiche, altri sguardi, tra cui, fondamentali, quello della compagna di sempre, Penelope.
Penelope è il fulcro del pensiero, la meta a cui Ulisse aspira, fino al punto in cui la donna amata diventa la rappresentazione stessa del suo pensare ed agire, la sua coscienza critica. È lei la protagonista del libro, e non è un caso che sia lei a dominare la copertina, in un'immagine in cui, anche visivamente, risulta al centro, imponente, ineluttabile, avendo quasi assunto su di sé gli atteggiamenti dell'amato Ulisse. Lei, Penelope, è la guerriera del pensiero, colei che lotta contro le insidie del tempo e della distanza, per ricucire con le proprie sinapsi quella tela di senso che riporta tutto, dopo la bufera della battaglia e dell'assedio dei Proci, ad una condizione di armonia, vivibile, narrabile, razionale e razionalizzabile.
Un libro, questo di Achille Concerto, scritto con passione  e acume, utilizzando un linguaggio adatto a rappresentare eventi che sono allo stesso tempo passati ed eterni, immersi in un altrove mitico eppure sempre presenti, in ogni mente che rifletta sul senso del tempo, sulle minacce della sorte e sulla sete, alla fine di tutto, di ogni percorso, di ogni avventura e disavventura, di pace e armonia.
Una lingua ricca e forbita, ma non arcaica e desueta. La coloritura classica non ostacola l'immediatezza, l'urgenza del dire, del chiedersi, del cercare risposte in tutti i mari del mondo, reale e immaginario. Un libro che ci regala il gusto e la voglia di riesplorare i classici, ma che vale di per sé, come nuovo percorso su tracce antiche, alla ricerca delle domande di sempre, e della meraviglia di risposte non trovate, incerte, e quindi foriere di nuove pagine, nuovi capitoli, nuovi viaggi, reali, poetici e narrativi.

Valeria Serofilli
Caffè dell’Ussero di Pisa, 3 giugno 2016



Elisa Scotto, Radici di frumento, Orma del Libro, 2016

Ci sono molti modi per approcciarsi alla poesia: alcuni lo fanno per mettere in mostra cultura, erudizione; altri per fare incetta di premi e diplomi; altri ancora cantano per rabbia, contro la sorte, il mondo, il destino. Leggendo i versi di Elisa Scotto si ha l'impressione, nitida, che l'autrice lo faccia per necessità, per immediatezza, per espressione diretta del sé. La foto di copertina del libro ci aiuta, ci offre una chiave, forse, o almeno un punto di vista privilegiato. Elisa si mostra nel sole che rende chiari i contorni nel bel mezzo di un campo di frumento. La materia del suo dire quindi equivale e si innesta con l'oggetto concreto e tangibile dei suoi versi. In più, lei stessa, la sua materia viva, nuda, umana, sembra nascere da quello stesso campo e crescere, spiga tra le spighe, in quello stesso contesto. Quasi a voler confermare la sua natura umana, ma inserita in modo spontaneo in un ambiente naturale, quasi a sottolineare che l'uomo è parte di quel tutto che gli è stato dato in dono, a livello esteriore ed interiore. Non ultimo, tramite la postura assunta dall'autrice nella foto, e tramite l'immagine riprodotta sul suo abbigliamento, si evidenzia un legame con l'Oriente, con la sfera più intensa ed antica, l'arte della meditazione sul senso delle cose, di quegli oggetti che sono allo stesso tempo concreti e metaforici, strumenti e utensili ma anche segni, legami tra la terra e una dimensione ulteriore che è allo stesso tempo presenza e meta da raggiungere.
I riferimenti a Pablo Neruda, a Paganini, a Mozart e a Galileo, alla poesia, all'arte e alla creatività contenuti nella pagine introduttive del libro, fanno luce sulla ricerca di modelli ideali di grandezza ispirata tuttavia e sostenuta dalla capacità di trovare la grandezza nelle cose apparentemente piccole. A ciò si lega forse anche la scelta dell'autrice di proporre testi brevi, liriche contenute in pochi versi, un insieme di sillabe selezionate con cura e passione per far sì che ogni poesia, come un  fiore, contenga sia una parte esterna che una interna, una corolla ma anche polline fertile. Un continuo, paziente, appassionato esplorare del confine tra materia e dimensione impalpabile, realtà e sogno, concreto e ideale, sono le poesie di questo libro.
“Laddove è ombra (da sbiancare)/ in perpetuo movimento/ i raggi miei/ si posano”, scrive l'autrice nella lirica di pagina 58. Luce e ombra, verità e mistero, e quei raggi, forse la poesia stessa, la meditazione, la riflessione che le uniscono creando un insieme armonico.
La poetessa è conscia della finitezza, del tempo che passa, della caducità di ogni essere e di ogni aspirazione. Eppure ciò non la spinge alla resa, la incita semmai, ad un ricerca tenera ma tenace, fatta prima di tutto su se stessa, sul suo corpo e sulla mente, offerti (come osserva nella quarta di copertina anche il musicista Marco Guerrieri) agli occhi e alla sensibilità di chi legge e di chi osserva. Elisa Scotto prende se stessa come punto di riferimento, non per narcisismo ma per fare in qualche modo da spartiacque e da avanguardia di un modo di porsi più sincero ed aperto agli altri, più orientato verso gli altri esseri che vivono al di fuori di noi ma allo stesso tempo in un universo invisibile, più grande e condiviso.
“La bellezza esce fuori/ dall'eterno in me”, scrive a pagina 87. E qui, in questi due brevi versi, è racchiuso il senso di questo libro sincero e appassionato. Il tempo, l'amore, la bellezza, gli elementi determinanti che si intrecciano e si sovrappongono, contrastati dal loro opposto, la disarmonia. Il tempo, inteso come cronos, attacca la bellezza esteriore, apparente. Ma il vero amore, la vera bellezza, restano, intatti, come la ricerca di una forma di poesia che non risolve il mistero ma lo attraversa con leggerezza, come le poesie di questo libro che affondano le radici nella terra ma aspirano ad elevarsi con gli strumenti proprio dell'uomo, il pensiero, la riflessione, il sogno.

Valeria Serofilli
Caffè dell’Ussero di Pisa, 3 giugno 2016


Su Anima semiseria di Alessandro Da Soller

La silloge di racconti è un genere forse più praticato nel passato che nel presente. Esso comunque ha sempre avuto una vita più difficile rispetto al romanzo o alla stessa raccolta poetica. Già D'Annunzio si lamentava di una certa resistenza da parte degli editori a pubblicare opere come queste. Tuttavia, la serie di racconti che contiene storie delle più varie ambientazioni e collocazioni temporali, ci pare uno degli strumenti più adatti per trattare una realtà multiforme e ferita, che si contorce e grida, e nel contempo anela alla riscossa, come quella contemporanea.
I soggetti sono davvero molto vari, anche di tipo storico. Da Soller si cimenta, infatti, a dare voce a un'ebrea deportata ad Auschwitz,  il cui ultimo pensiero è per il tedesco che l'aveva amata (Una doccia di zyklon). Prima ancora troviamo una vicenda di amore profondo e tormentato ambientata nel tardo Medioevo, fra un infallibile spadaccino e una donna che definiremmo "virile" (Violante e Aldebrando). Qui potremmo anche parlare di una voluta imitazione creativa nei confronti del Boccaccio, considerando anche il fatto che la protagonista femminile si chiama Violante, il nome di una figlia del Certaldese, ma anche il nome della protagonista di una novella (V, 7). E secondo noi qui l'Autore ha voluto ammiccare ad un modello e scoprire un poco le sue carte: come nel suo Decameròn il nostro conterraneo volle fornire un affresco vastissimo della realtà a lui contemporanea, unendo tutti i i toni e tutti i colori dell' universo umano del suo tempo, così Da Soller è andato pazientemente in cerca di quasi tutte le inquietudini, o, meglio, degli incubi che travagliano le nostre esistenze quotidiane per animarli dall'interno, per dare ad essi un corpo, evitando il rischio che si tratti dei soliti fantasmi elettronici da telegiornale che non ci lasciano dormire sonni tranquilli, ma che, al contempo, non hanno mai il tempo di prendere contorni così definiti da permetterci di riflettere. Abbiamo così la ragazza picchiata dall'ex compagno, vendicata da un'amica determinata e coraggiosa; il terrorista islamico che prima della strage di Charlie Hébdo si chiede per un attimo se avrà davvero le settanta urì promesse in premio a chi muore per Allah; il musicista eroinomane che muore per il suo vizio, subito dopo avere avuto la più geniale delle sue ispirazioni; il giovane che a vent'anni si trova gravemente ammalato…
La raccolta, comunque, si presenta come semiseria e veramente il tono antifrastico, che mai diventa irrisione, pervade quasi tutti i racconti. Il gioco, se così vogliamo chiamarlo, è scoperto sin dall'inizio: prima di farci entrare nel regno degli incubi, l'Autore ci propone un autoritratto adolescenziale, colto all'epoca di un sapido scherzo giocato ad un antipatico professore, con poco senso dell'umorismo e anche dotato di mediocre cultura. Il carattere semiserio è accentuato da un'ottica quasi sempre straniata in un modo imprevedibile. L'esito più riuscito di questa tecnica ci è sembrato l'ultimo racconto, il riscatto di una giocatrice patologica (ma non troppo…) narrato nientemeno che dalla slot machine con cui essa si sta rovinando, ma che, dotata di sentimenti umani, riesce a farle vincere una fortuna (Emotività digitale). Sarà appena il caso di ricordare che anche il Decameròn, che abbiamo indicato come possibile modello, è una raccolta semiseria, che contiene in sé ogni tipo di sfumatura del reale, dalla tragedia implacabile di Lisabetta da Messina alla fortuna inaspettata di Andreuccio da Perugia.
Lo stile è sostanzialmente classico, netto e geometrico, ma esso contempla anche l'aggressione ad una realtà spesso crudele e insensata mediante termini cinici e violenti, e soprattutto con l'uso frequente di un'onomatopea meccanica, barbara e cattiva, che interrompe spesso il narrato. E' come se quel linguaggio iconico fatto di immagini vorticose e suoni sgradevoli, in cui oggi noi tutti, ci piaccia o no, siamo costretti a rimanere immersi, si fosse creato uno spazio nel regno della scrittura, venendole in aiuto, anziché disgregarla. E richiamiamo anche l'attenzione anche su un altro tratto stilistico: il largo uso della focalizzazione interna. Esso ci trasfonde l'angoscia delle situazione, ci sembra di essere quell'uomo o quella donna soli con il loro dramma.
Siamo in ogni caso convinti convinti che non manchi una fiducia di fondo in questo scrittore, una certezza della perennità dei valori umani. Potremmo ricorrere a molti esempi in tal senso; ci limitiamo a sottolineare la presenza in alcuni testi di un vero protagonista della speranza: il Papa Francesco in persona, il vero eroe probabile dei nostri tempi. Un uomo anziano, ma indomito, che non sa arrendersi ai compromessi. La sua dimensione spirituale è trattata con una  leggerezza che fa pensare al disincanto, specialmente quando parla a tu per tu con Dio come faceva don Camillo, altro eroe della semplicità. Egli però arriva a sfidare la propria debolezza senile e i servizi segreti del Vaticano, che lo braccano per impedirgli di fare la carità immediata verso i deboli come quando era un prete di strada.
Concludiamo con un caldo invito alla lettura di questi racconti, sicuri che non lasceranno nessuno senza un qualcosa in più da meditare.
Andrea Salvini

Caffè dell’Ussero di Pisa, 3 Giugno 2016




 
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