IVANO MUGNAINI
Nato a Viareggio, si è laureato a Pisa con una tesi sul teatro rinascimentale. È autore di romanzi, racconti, poesia e saggistica.
Scrive per alcune riviste tra cui “Nuova Prosa”, “Gradiva”, “Il Grandevetro”, “Italian Poetry Review”, “Doppiozero”, “L’ Immaginazione”. Collabora con case editrici in qualità di redattore e curatore di recensioni ed editing. Cura il blog letterario “DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario”,
www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com e il sito www.ivanomugnaini.it .
Nelle rubriche “L’ombra del vero” e "Panorami congeniali" sul sito della Bompiani RCS, www.bompiani.rcslibri.it/speakerscorner , ha proposto suoi racconti e “rivisitazioni” in forma di racconto di film e classici letterari.
Suoi testi sono stati letti e commentati più volte in trasmissioni radiofoniche di Rai – Radiouno e da alcune televisioni regionali e nazionali.
Ha collaborato come autore di lavori creativi, note e recensioni, con diverse associazioni culturali, tra cui l’Associazione “AstrolabioCultura” di Pisa, diretta da Valeria Serofilli.
Ha presentato sue prose e liriche all’interno di manifestazioni e rassegne artistico-letterarie tra cui “Versinguerra” e “Bunker Poetico” , e brani letterari abbinati ad opere artistiche all’interno della Biennale d’Arte di Venezia.
Ha pubblicato le raccolte di racconti LA CASA GIALLA e L'ALGEBRA DELLA VITA, i romanzi IL MIELE DEI SERVI e LIMBO MINORE e i libri di poesie CONTROTEMPO, INADEGUATO ALL'ETERNO e IL TEMPO SALVATO. Il suo racconto DESAPARECIDOS è stato pubblicato da Marsilio e il suo racconto lungo UN’ALBA è stato pubblicato da Marcos Y Marcos. Di recente pubblicazione i romanzi IL SANGUE DEI SOGNI e LO SPECCHIO DI LEONARDO.
Tra i critici e scrittori che si sono occupati della sua attività letteraria: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Roberto Pazzi, Giorgio Bàrberi Squarotti, Alberto Bevilacqua, Luigi Fontanella, Paolo Maurensig, Elio Pecora, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Saviane, Walter Mauro e altri.
Su "Lo specchio di Leonardo" di Ivano Mugnaini (Eiffel edizioni, 2016)
L'idea della fuga dalla vita quotidiana grazie ad un doppio di se stessi non è nuova nella letteratura, più o meno recente. Chi non ricorda "Il fu Mattia Pascal" di Pirandello? Mattia Pascal si trova libero da se stesso e da tutta la congerie oppressiva degli assilli quotidiani grazie ad un doppio perfettamente docile, al cadavere di uno sconosciuto che, ufficialmente, lo fa scomparire per sempre dalla scena del mondo rendendolo libero di inventarsi una vita tutta nuova. In effetti ci è sembrato di trovare, quasi all'inizio del romanzo del Mugnaini, un preciso riferimento all'universo pirandelliano: "E, una buona volta, avrei potuto vedermi vivere, o, ancora meglio, osservare come gli altri mi vedevano o credevano di vedermi: le falsità, i commenti velenosi, le pugnalate appena voltata la schiena. Avrei finalmente scrutato con calma e con agio le facce e i cuori degli altri. Pensando anche, con enorme applicazione, a una vendetta adeguata, prima di morire: un’invenzione decisiva, risolutiva, un micidiale cavallo di Troia per questo mondo malato" (p. 23). Non sarà sfuggito al lettore, verso la fine del passo che abbiamo riportato, anche un richiamo al noto finale della "Coscienza" sveviana. Un primo omaggio al Novecento è dato, ma ne troveremo altri, come avremo modo di osservare in questo nostro tentativo di lettura. Avvertiamo, infatti, sin da ora che ci sembra ben difficile dire qualcosa di esaustivo su questo testo, su cui altri sono già autorevolmente intervenuti. Solo il tempo e ulteriori riflessioni critiche potranno portare più luce su un testo davvero complesso e che è stato sicuramente scritto dopo approfonditi studi storici e artistici.
Intanto vediamo che la narrazione è condotta da un "io narrante" che si propone praticamente come onnisciente riguardo alla realtà; e non poteva essere altrimenti, dato che si tratta dell'«io» del grande Leonardo: egli appare in grado di comprendere tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che si trova nell'animo di chi incontra, si tratti di Lorenzo il Magnifico o di una semplice ragazza veneziana, maldestra avventuriera. Un altro «io narrante» di tale spessore lo possiamo incontrare solo là dove il protagonista ha uno spessore culturale elevatissimo, come, ad esempio, nelle "Memorie di Adriano" della Yourcenar: anche qui il protagonista ci racconta se stesso dal vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e nefandezze, consapevole infine del proprio declino, del proprio scivolare dall'onnipotenza in una sostanziale impotenza. Lo stile ovunque prezioso, quasi fastoso, del romanzo, che troviamo tanto simile a quello della Yourcenar, rafforza nel lettore l'impressione di onnipotenza dell'io narrante.
Il Leonardo di Mugnaini ci sembra ripercorrere un cammino simile, connotato da una onnipotenza intellettuale, diversa da quella di Adriano. All'inizio manipola il povero Manrico senza difficoltà, lo convince a diventare il suo doppio, anzi, il suo specchio. Segue quindi la fuga a precipizio dal proprio ruolo che ci appare come una vera e propria discesa agli inferi. Leonardo cerca anzitutto la trasgressione in una casa di prostituzione a Firenze. Poi passa una notte spensierata a Venezia con Emilia, una delle figure forse più tragiche del romanzo: Leonardo non esita ad abbandonarla, pur sapendola innocente, alla terribile giustizia veneziana(1) , dando prova di un perfetto egoismo narcisistico. Il fondo viene toccato poco dopo, con la narrazione a Manrico della violenza abietta compiuta in gioventù ai danni di Jacopo Saltarelli in compagnia dei giovani bene di Firenze, che poi, grazie all'intervento personale del Magnifico Lorenzo, possono anche concedersi il lusso di sfuggire elegantemente ai rigori della legge. Leonardo ci appare a questo punto una figura disgustosamente impunita, ma ecco che nel suo "specchio" avviene qualcosa. Manrico comincia a rivelarsi tutt'altro che ottuso e docile: scopre di avere un'arma per ricattare in futuro proprio Leonardo, anche se, per il momento, abbiamo solo un'allusione oscura: “Quello che mi ha detto, Maestro, è una cosa grossa. Io, lo sa bene, sono un contadino, tutto sommato, e figlio di contadini; ho fatto il copista, certo, ma resto un ignorante e so di esserlo. Però perfino io capisco che quella notte è accaduto qualcosa che non si cancella. La ringrazio per avermi fatto questa confidenza. Ma si ricordi, la prego, ora e nel futuro, una cosa: non sono stato io a chiederle di raccontarmi di quel fatto e di quel processo” (p. 47).
Leonardo non sembra percepire il cambiamento avvenuto nello "specchio", in colui che gli ha reso possibile fare ciò che ad un personaggio pubblico, prigioniero della sua dignità, non sarebbe stato possibile. Comincia ad essere assillato dal pensiero del tempo che si consuma e della morte che si avvicina e continua il suo viaggio, stavolta da solo, lasciando Manrico a vivere la sua vita di artista ricercato e osannato. Si alternano vari quadri, vari incontri, tutti contrassegnati da immagini di morte, di fallimento, di sopraffazione. Il mondo appare irredimibile, ma, ad un certo momento Leonardo sembra avere un'illuminazione: "Ho iniziato questo viaggio, la fuga da me stesso e dalla mia immagine, per ribellione, per un moto di rabbia contro il mondo e contro di me. Ora, a metà del cammino, mi trovo di fronte a un paradosso: negli occhi umili che ho incontrato, e non di rado ferito, c’è la più quieta e la più possente tra tutte le forze, la più inattesa e autentica forma di rivolta: la bontà" (p. 57).
Fin dall'inizio il Leonardo di Mugnaini viene rappresentato come un essere in profondo dissidio con se stesso; l’Autore, però non ci sembra precisare mai fino in fondo la natura di tale dissidio. All'inizio sembrano prevalere motivi psicanalitici, legati all’abbandono da parte della madre, ma poi su di essi si innestano vari altri motivi, tutti contrassegnati da una profonda e amara sfiducia verso se stessi e il mondo. La scoperta della presenza della bontà non cambia l'animo di Leonardo: egli rientra nella sua casa fiorentina per accogliere proprio sua madre, la donna che lo aveva abbandonato, che rimane con lui negli ultimi giorni di vita. Tra i due non si apre alcun confronto pacificatore e risolutivo: la madre di Leonardo muore e basta, senza che vi sia stata nessun dialogo liberatorio, nessuna confessione, nessun perdono. Leonardo tenta allora di tornare indietro, di rinunciare al suo assurdo gioco indagatorio: "Non era più tempo di pagliacciate, per rispetto della morte e della vita dovevo ritrovare la follia più autentica, la verità" (p. 63). Tenta di sbarazzarsi di Manrico riconducendolo là dove lo aveva incontrato, ma non si accorge che sta commettendo un errore. Manrico, infatti, rivela, quasi di sfuggita, ma inequivocabilmente, di essere stato una sorta di "convitato di pietra" alla mensa di Leonardo: "Ringraziai Manrico, e quasi mi scusai con lui per avere fallito, per non essere riuscito a prolungare né a concretizzare il mio folle e magico progetto. Con un solo gesto mi fece capire che non era con lui che mi dovevo scusare. Mi fece intendere che aveva raccolto molto, ed altrettanto teneva custodito dentro di sé, destinato a dare nuovi frutti" (p. 65). Così Leonardo scivola inconsapevolmente dall'onnipotenza all'impotenza: crede di poter tornare al suo interminabile investigare e rimuginare di studioso, ma Manrico una sera bussa alla sua porta e lì comincia la sua riscossa. Leonardo cede da codardo ad un basso ricatto e consente a Manrico di realizzare la propria autentica natura: il sosia non era solo un sosia, era qualcuno che non aveva avuto le occasioni del suo fortunato "doppio". Tutto questo ci ha fatto pensare alla scena finale del "Ritratto di Dorian Gray" di Wilde. Il ritratto uccide Dorian nel momento in cui sembra destinato alla distruzione, così come Manrico diventa artista più sublime di Leonardo nel momento in cui sembra destinato a sparire per sempre dalla scena della Storia: è lui che realizza il sorriso della "Gioconda" e sta per trionfare su Michelangelo nella decorazione del salone dei Cinquecento a Firenze con "La battaglia di Anghiari". Leonardo lo terrà ancora con sé a Roma, muto assistente del suo interminabile colloquio con se stesso, collaboratore sfruttato e mai ricompensato per la propria creatività. Cercherà ancora di liberarsene, ma il suo "doppio", dopo aver escogitato una vendetta ancora più tremenda del precedente ricatto, riuscirà a diventare definitivamente Leonardo, quello che lavorerà nei suoi ultimi anni alla corte francese. Se volessimo ancora richiamarci a Pirandello, quando si è usciti dal proprio ruolo, dalla propria "maschera", non è più possibile rientrarvi: Mattia Pascal non può risuscitare, Enrico IV non può tornare indietro nel tempo a rivivere il suo amore perduto e via dicendo. Manrico appare perfettamente consapevole di questo e lo rivela a Leonardo quando torna dalle sue montagne : "Senza mai smettere di sorridere, mi disse che aveva provato con tutte le forze ad ambientarsi di nuovo nelle sue montagne, ma non gli era stato possibile. Nulla era più lo stesso, e soprattutto lui era cambiato" (p. 67). Il genio è sconfitto, il copista povero e ignorante è il vero trionfatore: la sicumera iniziale di Leonardo è stata battuta dalla tenacia, forse un po’ furbesca, di un montanaro.
Concludiamo, per ora almeno, le nostre considerazioni, tornando a dire che queste non possono essere che provvisorie. Speriamo quindi in nuovi contributi critici su questo testo, che non può lasciare indifferenti, specialmente per quanto riguarda l’interpretazione della vera natura del dissidio interiore di Leonardo, davvero sfuggente come il sorriso di Monna Lisa.
Andrea Salvini
1. Ci se ne può fare un'idea leggendo "La mia fuga dai Piombi" di Giacomo Casanova.
Alessandra Paganardi, nata a Milano nel 1963, vive, insegna e scrive a Milano. Raccolte di poesie: La pazienza dell’inverno, Puntoacapo 2013 (premio Operauno), Tempo reale, Joker 2008 (premio San Domenichino 2009); Ospite che verrai, 2005, (ristampa 2007). Plaquette: Frontiere apparenti, Puntoacapo 2009; Vedute, Ibiskos Ulivieri, 2008; Binario provvisorio, Seregno 2006; Potevamo dire l’assenza, Crimeni, 2005; Espansioni, Il club degli autori, 1998. Saggi critici, aforismi e narrativa: Breviario ,Joker 2012 (menzione speciale “Torino in sintesi” sez. inediti, 2010); La magnolia contro le persiane, in AAVV, “Milano per le strade: racconti”, Azimut, Roma 2009; Lo sguardo dello stupore: lettura di cinque poeti contemporanei, Viennepierre 2005, (finalista “Nabokov” 2008). Ha ottenuto riconoscimenti in numerosi concorsi per editi e inediti, fra cui i primi premi: “Europa in versi” (2016); “Alda Merini” (2013), “Astrolabio” (2009), “San Domenichino” (2009 e 2007), “G. Gozzano” (2007), “D’Annunzio e la Versilia” (2007), “Dialogo” (2003). È presente nella redazione della rivista letteraria internazionale “Gradiva”.
La paziente tenace ricerca poetica di Alessandra PaganardiNota di lettura di Valeria Serofilli a La pazienza dell’inverno ( puntoacapo Editrice, 2013) di Alessandra Paganardi
"Ancora una volta la poesia autentica mostra il suo nodo: sprofondare nella malinconia del nulla, quasi fino all’afasia, per emergerne con un messaggio di dura
fiera e musicale resistenza. Tutto il libro testimonia questo combattimento, e il titolo stesso del libro, La pazienza dell’inverno, entra nella mente del lettore come un invito a lasciar passare le cose peggiori, in attesa di un mutamento positivo di cui talvolta si dispera”.
Ad apertura di questa mia breve disanima introduttiva del libro La pazienza dell'inverno di Alessandra Paganardi, mi piace riportare questa frase tratta dalla corposa e intensa Prefazione di Marco Ercolani, lasciando poi al lettore il compito e il piacere di leggere ciascun verso di ciascuna lirica, entrando in modo individuale nel mondo poetico dell'Autrice.
Il volume si articola in sei sezioni, una delle quali costituita da Frontiere apparenti, opera vincitrice dell’edizione 2009/2010 del Premio Astrolabio, di cui ripropongo un interessante stralcio della motivazione curata da Mauro Ferrari, valida dunque anche per l’opera qui oggi presentata: ”Se c’è uno spunto autobiografico e fattuale, questo si situa subito prima di laceranti riflessioni sulle occasioni e sui luoghi che ci hanno reso ciò che siamo, sulle direzioni non prese e sulle potenzialità non espresse della nostra vita; ma, anche, questi versi sempre poggianti sulle cose e sui sensi, ci fanno riflettere su ciò che abbiamo costruito nel divenire della vita.”Soltanto ciò che è dato sarà tolto” dice in un verso alto e sonante di saggezza quasi epigrammatica: Alessandra Paganardi mette in scena il dramma della vita, il sentirsi grumo ed erranza, che è comunque un’apertura allo slancio vitale e alla costruzione di un nostro mondo in cui sia possibile, nella frase di Holderlin “ abitare poeticamente”.
Riprendendo la mia personale disanima posso affermare che La pazienza dell’inverno è un lungo e teso braccio di ferro tra desiderio di silenzio e volontà, o forse sarebbe più esatto dire necessità, di espressione. A questo contrasto di affianca la dicotomia più classica: quella tra il senso dello scorrere del tempo e la speranza di poterlo in qualche modo fermare, arginare, dandogli una diversa forma e una misura più umana.
Il ritmo del libro è "mono-tonale", facendo ancora riferimento al termine scelto da Ercolani. Come una goccia che cade ogni giorno nello stesso modo, con lo stesso suono, su un suolo che lo accoglie passivamente. Il suono dell'inverno, la sua musica triste. Ma è proprio qui la sfida, quella a cui fa riferimento il titolo: l'attesa.
È un'arte che richiede perizia, tenacia, molto fiato. L'attesa per qualcosa che nel momento in cui viene concepito appare non solo improbabile ma quasi impossibile. Eppure la coscienza e la consapevolezza, il sogno e la memoria sanno che alla fine di ogni inverno, per quanto lungo possa essere, c'è una primavera:
<<Al ramo spogliato porteremo
un’attesa gentile
di pazienza e silenzio
lo chiameremo solamente inverno
non sarà più dolore.>>
(da Quarto piano)
Quindi la parola trova risorse che non pensava neppure di possedere e cambatte l'afasia, il desiderio del nulla, l'azzeramento.
«Seguire il solco, non l’aratro –
dentro / la legge della terra, sempre quella / che non ascolti.
Ritrovare il seme / nascosto, o non scoprirlo / se non era per
noi.»
(Si veda la lirica XII di pag. 46)
Non saprà nessuno che il mio buio è la madre del mondo, afferma l'autrice nel distico conclusivo della lirica che apre la Sezione "Voci in ombra". E sono versi emblematici dei contrasti e delle contrapposizioni di cui si è detto. Sapere di essere fatti di buio ma cercare la luce. Un continuo e paziente lavoro di adattamento alla materia, alla pietra soprattutto, quella che appare inanimata ma che contiene in sé il cammino, la strada, la possibilità di mutare terreno e orizzonti.
<<Di quella pietra nel cemento
non è rimasta che un’impronta vuota.
La terra ha una memoria minerale
si riempie quando passa forte il vento
o il piede indelicato del passante
a scalciare la vita.>>
(Si veda la lirica VII di pag. 68)
Anche la dedica della Sezione "Ritaglio" a Cesare Pavese è conferma ulteriore di un legame non solo letterario ma umano, di spirito di com-passione, sofferenza condivisa, vissuta in tempi diversi ma con coordinate condivise. Ma a differenza di Pavese trova in sé la tenacia dello scalatore che a un certo momento non è più diretto verso la vetta, la verità assoluta, ma verso ogni singolo passo, ogni molecola di polvere, fango e aria che circonda il mondo e l'uomo e ne costituisce la materia:
<<Non più segreti. Non più parole.
Era rossa d’amore la terra
ma per trovare il caldo di un abbraccio
dovevo farmi radice, scendere
fino al centro del fuoco.>>
(Si veda la lirica III di pag.75)
Per concludere, questo libro di Alessandra Paganardi è un lungo e sincero diario di viaggio: dagli abissi del buio alla ricerca di quelle radici che in realtà sono rami, e frutti. E quell' abbraccio caldo è il traguardo, la meta.
Valeria Serofilli
Presidente AstrolabioCultura
Premio Astrolabio e Incontri Letterari dell’Ussero
Caffè dell’Ussero di Pisa 16.09.2016