"Fedro rivisitato" di Valeria Serofilli *
di Lorenzo Fort
Com’è noto, il nome «favola» è di origine latina (fabula) e deriva dal verbo for, faris («dire»). Se però all’inizio il termine fabula designava, per i Romani, vari tipi di racconto, innanzitutto il racconto mitico, in un secondo momento esso venne a indicare un preciso genere letterario: ossia a dire, un racconto fittizio, con intreccio minimo, per lo più abitato da animali parlanti, elaborato e narrato a scopo di edificazione morale o più immediatamente educativo, tramite l’illustrazione di vizi, comportamenti tipici, connotazioni ricorrenti tanto da divenire caratteriali. La morale conclusiva (per lo più presente ed esplicitata) di solito era introdotta da una formula fissa – sia nei testi scritti in greco (? mËyow dhlo›) sia in quelli latini (fabula docet).
Di fatto, si può considerare la costruzione favolistica quasi come un’etologia rovesciata, dal momento che in essa il punto nevralgico è costituito non dall’analisi degli usi e costumi del mondo animale, bensì, al contrario, dall’osservazione e dalla conseguente censura di comportamenti o caratteristiche umane, attraverso la mediazione di animali per l’occasione assunti al ruolo di maschere, o quanto meno di simboli, “segni”.
Quello della favola, si sa, è un genere letterario molto antico, attestato già in testi sumerici dell’inizio del secondo millennio a.C.: un genere universale e ricco di saggezza popolare, riflesso dei bisogni e dei sentimenti più elementari del popolo, i cui primi “autori” sono eredi di una lunga e consolidata tradizione narrativa orale, intenzionati a fornire, secondo Dione di Prusa (I-II d.C.), una interpretazione utile ed edificante della realtà attraverso l’allegoria e la metafora. In Grecia, la più antica attestazione si trova in Esiodo (il racconto dell’usignolo e dello sparviero, Opere e giorni 202-212), ma poi lo si ritrova anche in Archiloco Esiodo (il racconto dell’aquila e della volpe, frr. 174-181 West2) e nelle tradizioni “umili” del giambo e della commedia – ma non mancano riferimenti a racconti favolistici perfino nella tragedia. Tuttavia, è intorno alla figura semileggendaria di Esopo (VI secolo a. C.) che si è andato via via coagulando un ricco corpus di racconti favolistici: ad Esopo viene attribuito tutto il patrimonio di una favolistica che vede come interpreti per lo più personaggi del mondo animale, ricche di spunti umoristici e commenti di saggezza morale; Esopo avrebbe dato forma letteraria ad una materia fino allora affidata alla tradizione orale. La tradizione esopica (la prima raccolta di cui si ha notizia fu curata da Demetrio Falereo intorno al 300 a.C.) presenta una struttura generalmente tripartita, costituita da una premessa (promythium), il racconto vero e proprio e una postilla (epimythium), contenente la “morale”. A Roma, viceversa, il genere entra relativamente tardi: a parte le favole inserite nelle satire di Ennio, qualche accenno a favole esopiche nella commedia e uno in Catullo, e soprattutto in Orazio (la favola del topo di campagna e del topo di città, Sat. 2, 6), esso trova il suo primo e più importante esponente in Fedro – un Tracio vissuto sul finire del I secolo a. C., condotto abbastanza presto nella capitale (tanto da poter studiare Ennio in una scuola romana), divenuto quindi, con gli anni, uno dei liberti più apprezzati di Augusto, ciò non ostante rimasto più tardi vittima di una condanna più o meno infamante, inflittagli da Seiano con un procedimento che il poeta considera (e denuncia) come illegale e ingiusto.
A dispetto di ciò, con la sua raccolta di favole in versi (senari giambici) Fedro trapianta l’importante filone letterario nella cultura latina, dando corpo a una raccolta di novantatre favole suddivise in cinque libri, dal titolo complessivo Phaedri Augusti liberti fabulae Aesopiae (o semplicemente Fabulae), successivamente arricchite dei trentun brani riuniti assieme dall’umanista Niccolò Perotti nella così detta Appendix Perottina. In aggiunta a ciò, il filologo C. Zander si curerà di pubblicare una serie di parafrasi, risalenti all’età medievale, di altre trenta favole da lui attribuite all’arguto liberto, in un volume intitolato Phaedrus solutus (1921). I racconti fedriani saranno quindi ampiamenti ripresi e rielaborati nelle epoche successive, per esempio dal celebre poeta e favolista francese del Seicento La Fontaine e, nel Novecento, da Trilussa o Anouilh.
In questo nobile, secolare filone si inserisce da ultimo il piacevole libro serofilliano – nel quale (con agile riferimento al testo latino, attentamente curato da Enzo Mandruzzato per la BUR), «le “rivisitazioni” di Fedro elaborate dalla Serofilli (che Bárberi Squarotti ha definito “argute e persuasive”) non si allontanano mai dallo spirito degli originali e tendono a fondere i vari momenti in una scrittura che sembra essere alimentata dall’urgenza di una verità dichiarata e collocata tra l’etica e la giustizia … La Serofilli si è posta in modo quasi marginale in rapporto ai testi originali e ha dato al suo lavoro di rivisitazione delle scansioni scherzose di notevole vivacità letteraria» (D. Carlesi, p. 7).
Oltre a quelli anticipati nei mesi scorsi nell’apposita sezione di «Senecio», tra i numerosi possibili esempi da citare mi sembra di rilievo già il Prologo: «Inventar ‘favole’ non è mestiere da poco, / così ho ripreso materia collaudata / facendo come Fedro con Esopo. / Tramutato ho i senari in versi sciolti / con rima o no, molto più disinvolti / anche se servono, me l’auguro davvero, / anch’essi alla prudenza dar consiglio / anch’essi alla tristezza porre freno. // Chi disapprova al gioco stia / di questa mia esuberante fantasia!».
Un brano, a quel che si può vedere, già in sé significativo, al quale fanno seguito altri trentacinque briosi testi, più o meno lunghi ed elaborati, che comunque offrono un’altrettanto piacevole lettura e confermano il fortunato – abile – talento dell’autrice (giusto quanto ammonisce il brano di coda: «In buone mani / deve incappar talento / per non far asino con lira / che solo corde scocca / e l’incapace unghia / cuore non tocca. // Sensibilità / non basta a ingegno: / urge la tecnica / che a mala sorte / e ad incapacità / non paga pegno!). Non resta che sperimentarlo.
Lorenzo Fort
* Valeria Serofilli, Fedro rivisitato. Prefazione di D. Carlesi, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 2004