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- Le albe i venti, Cultura Duemila, Ragusa, 1993.

Renata Giambene
Riconosciuta dalla critica, fin dai suoi esordi, nel 1954 con Passi di piedi nudi come originale voce di poeta, Renata Giambene conferma con questa sua nuova silloge di liriche, Le albe i venti, le caratteristiche più felici e singolari della sua espressività.
Nella sua lunga fedeltà alla poesia, la Giambene rimane coerente ad una ricerca espressiva che tende alla comunicazione calda e appassionata della parola, la cui felicità stilistica si avvale del gusto della metafora intensa ed ardita, dell'ossimoro e della sinestesia, giocati espressionisticamente su colori e suoni che evochino i movimenti profondi dell'anima, i sussulti dell'emozione e i percorsi del pensiero, inquieto e ansioso di interrogarsi sui perché primi dell'uomo, sulle ragioni oscure e misteriose del suo dolore e delle sue gioie. Sicuramente ascrivibile a quell'"espressionismo toscano" entro cui la colloca Gaetano Salveti¹, un espressionismo le cui punte di icasticità sono riassorbite nell'armonia di un flusso musicale e ritmico, sorretto o dalla metrica tradizionale (prevalentemente versi novenari ed endecasillabi) o da un procedere narrativamente disteso, il dettato poetico della Giambene si impone per il fascio di vibrazioni che riesce a trasmettere al lettore attraverso una straordinaria ricchezza semantica, una pienezza espressiva polisensa, intensamente personalizzata, in cui la cultura si è decantata, trasferendosi sulla pagina poetica palpitante di vita.
Il percorso umano dell'autrice, che muove dalla scoperta dell'individuale sofferenza e solitudine, si dilata nel recupero del tempo e della storia, della società e dell'Uomo universale, osservati ed accolti con la disponibilità di chi guarda la vita con amore e con la superiore saggezza derivata dalla coscienza della precarietà del reale e del destino, senza tuttavia rinunciare alla lotta e alla difesa dei valori primari dell'esistenza.
In corrispondenza con l'evoluzione psicologico-storica, la produzione della Giambene si amplia e si approfondisce stilisticamente e tematicamente. Se Passi di piedi nudi (1954) e L'età finì dei gridi (1958) mostrano una ampia invadenza dell'io individuale, già con Sosta al fiume (1964) il rapporto con la realtà si articola più ampiamente e si fa più complesso. Il tuffo panico nella natura, acuisce e sviluppa il sentimento del tempo e della durata, il persistere, oltre il fluire del tutto, di certezze che poggiano sulla continuità di un reale fatto di sentimenti, di passioni, di giudizi e di impegno etico-sociale, di bisogno di assoluto e di perfezione che lo rendono degno di essere vissuto ed amato nella sua contraddittorietà vitale.
I semi delle cose (1975), centrali nello svolgimento della poetica e della tematica della Giambene, ci si presentano come maturo approdo di un conquistato rapporto col mondo e con il proprio io, che diviene non più il luogo del dolore e della riflessione amara sulla realtà, ma il centro di una vicenda in atto cui partecipano tutti, uomini, cose e natura, in una nuova e più completa disponibilità al colloquio sereno e consapevole: "Chiamare per nome ad uno ad uno e scendere all'incontro".....
L'apertura sul mondo riconverte la vasta problematica degli affetti familiari, dell'amore, della denuncia sociale e civile dell'ingiustizia e dello sfruttamento dell'uomo, della ricerca di Dio, costantemente presenti nella lirica della Giambene, nella scoperta della continuità, allargata nell'orizzonte dello spazio e distesa nella verticalità del tempo, del dolore e della sofferenza, ma anche e soprattutto, della speranza, della gioia e della voglia di vivere, nonostante tutto.
Alla più matura consapevolezza e alla disposizione più serena, corrispondono, pur nella continuità e coerenza di stile, una volontà di sperimentare nuove vie espressive, più duttilmente adeguate alla nuova dimensione interiore, in cui al persistente aspressionismo lessicale si associa una singolare levità espressiva che si sviluppa dall'interno degli stilemi e dell'onda melodica, rarefacendo le immagini in una sorta di atmosfera surreale.
Questa innovazione, già presente, anche se non esplicita, nelle raccolte precedenti, verrà polarizzata nelle sillogi successive Tempo di sinopia, Letti etruschi, entrambe del 1987, e nell'Orso di pezza 1990, che, non a caso, ripropongono rielaborate, liriche delle raccolte precedenti, a conferma di una continuità e fedeltà nella variazione, di quella linea espressiva di cui si diceva all'inizio. Anche la poesia spettacolo de L'occhio della mosca 1987 o l'esperimento teatrale de L'uomo nudo 1980, apparentemente divaganti rispetto all'esperienza lirica, rappresentano una dilatazione comunicativa e stilistica della cifra fondamentale della poesia della Giambene: il suo disporsi come atto di amore oltre che di creatività fantastica, già annunciato in una lirica de I semi delle cose "II pane caldo" in cui si dichiara: .... "il mio segreto affaccendato amore d'ogni cosa".
Ed è questo amore che permea anche la poesia de Le albe i venti, allargandosi in uno spazio cosmico - astronomico, metamorfizzandosi nell'alternarsi panico degli eventi e dei paesaggi naturali dai quali non è però mai assente l'uomo, protagonista assoluto anche quando è silenzioso spettatore, come specchiante coscienza del mondo.
Lo spazio della coscienza individuale, della storia e degli eventi, del vissuto quotidiano, appaiono scanditi dal succedersi delle albe e dei venti che intrecciano il divenire dell'uomo al respiro universale, al battito del pulsare ritmico dell'universo.
In questa silloge di liriche, completamente inedite, il discorso lirico della Giambene si rinnova nella direzione di una scansione ritmico-musicale, linguistico-lessicale più distesa, più rasserenata e meno emotivamente esplosiva, anche là dove la carica polemica, la denuncia civile e sociale o l'accoramento sentimentale sono intensi e pungenti. Come se il distendersi o il raccogliersi nel movimento luminoso dell'alba e nel ritmo musicale del vento, suggellasse un patto di alleanza osmotica tra la vita dell'individuo e quella dell'universo, in una sorta dicontinuità, senza fratture, tra l'essere e l'esistere.
Motivi, temi, stilemi della produzione precedente si rinnovano dall'interno, senza essere rinnegati, in un diverso registro stilistico e in una nuova cifra filosofica.
Quella leggerezza di immagini e di colori, contrastante ma pur convivente in armonia con la forza espressionistica delle metafore (ancora pregnanti in questa raccolta per es. chiodo d'alba-ombre si annegano-scoppio del sole-impiccata all'alba-si spara in bocca-strappi il grido-pace spalmata-scialle di fuoco ecc.) già largamente presente nelle liriche precedenti, appare essere il segno distintivo de Le albe i venti, già dal titolo, allusivamente simbolico alla levità di luci colori immagini parole suoni che segnano la progressione delle poesie all'interno della raccolta. La lirica d'apertura, ci offre immediatamente la chiave dominante di lettura:

Alba che ti muovi
sinuosa ragazza celeste
profumo intenso spandi
lievi raggi sole...
.……………….
e tu contadina impasti pane e alba..
……………….

L'alba, sinuosa ragazza celeste, il profumo, i raggi-sole, ci immergono immediatamente nell'atmosfera di levità, di immagini e di movimenti, di visioni e di sensazioni-profumo - che percorreranno come leit-motiv di fondo tutte le liriche, riunendole in un percorso di eleganza sognante eppur concreta, di freschezza e di indefinita soavità che non si sottraggono però al reale, ma di esso polarizzano la naturale, intima bellezza, tradotta e catturata dalla poesia translucida della Giambene.
Non fuga dalla realtà dunque, che non sarebbe ipotizzabile nell'impegnata e fervida dimensione etica dell'autrice (e si vedano in proposito la poesia sul pescatore - "padrone d'acque inquinate" - o sull'uomo del sud che" - deve smettere di accattonare posti letto - "o sul bimbo nato nel ghetto - " che ha un chiodo d'alba fitto nel petto" - o su Ruht, - "impiccata all'alba... col figlio appeso dentro al suo ventre" - o sulla tragedia dell'imminente guerra - "l'uovo della guerra -", mentre "la pace è spalmata sui manifesti - "ma necessità di cogliere, nella vertigine dell'individuo e della storia, la stessa dimensione della vertigine cosmica, che la riscatta, la giustifica e la rende bella, di quella bellezza anche violenta che la natura produce innocentemente dalle sue viscere come una madre:

L'alba affonda dita lievi
nel ventre della donna
urlo di vagito morte
e il capo del bimbo spunta,
cimolo di frutto vivo.
Si è intiepidita l'aria
e avanza il giorno.

Anche Cristo, figlio di dolore e riscatto della non più innocente natura, deve essere recuperato in una luce d'alba:

Cristo schiodato dalla croce
basta, vi prego farlo morire
ogni domenica da millenni,
stendete il Figlio avvolto d'alba
sui rami alti, dove risorto
scenda ragazzo dove lui vuole...

In grado di rasserenare, anche la morte e vestirla di gioia e di speranza, inondandola di quella luce cosmica che probabilmente fu all'origine di tutti i tempi e che con i venti siderali trasformò il Caos in Kosmos. Luce e vento, tempo e spazio, attraversano la vita, la trafiggono, direbbe Quasimodo, non per lasciarla alla solitudine dell'abbandono, ma per renderla più lieve, più accettabile, per farcela leggere in trasparenza, nella trama sottile dei suoi percorsi, al di là del vuoto.
Avvolto in queste "reti di luce" e dilatato "nel vento grecale.... impigliato nelle vesti di seta d'oriente", acquista un senso anche ' 'il bicchiere - d'acqua terra' ' che ci contiene. Ha valore il brivido di esistere sempre e" di più, di più' ' : la ricerca inesausta del conoscere - '' Ulisse, il nostro itinerario, liberi e curiosi, mai fermarsi, mai più -". Ha durata l'amore: - "perché non vuoi fermare il tempo? Si può, è un dovere ..... prima che la notte cancelli la sua ombra e strappi il grido -"e, persino Dio, lontano, ravvolto nel vento, può essere recuperato all'interno di noi -" dove una parte di lui (ti) è stata data con il nome di vita.
Ed è infatti la Vita con la V maiuscola a manifestarsi in tutta la sua bellezza o "serena disperazione" per dirla con Saba, attraverso il gioco delle albe e dei venti che ricamano dall'interno la struttura dell'esistenza. Una nuova serenità, stilisticamente realizzata in atmosfere di delicate suggestioni visuali e toniche, intride la pagina poetica più recente della Giambene, anche là dove il registro ironico tocca ancora una volta le convenzioni (si veda per es. la poesia" Sono una donna che ama la gente"....) del perbenismo culturale e sociale: quasi un desiderio di scherzare, nel significato più alto del ludus, sul mondo, una volta che lo si sia guardato da un'ottica capovolta e decentrata, misurandolo sull'orologio meta-storico in cui scorrono i tempi delle albe e dei venti.
Il pane nero degli esordi, con la scoperta drammatica del male di vivere individuale e il grido lacerante che ne conseguiva, passando attraverso l'intensa comunicatività del pane caldo de I semi delle cose offerto e condiviso, con "affacendato amore", a tutta l'umanità, simbolo della fatica e della produttività storica dell'uomo e del suo essere, si è ora impastato di alba. "pane e alba": l'alba di una raggiunta accettazione della vita e della "leggerezza dell'essere", tra storia e metastoria, tra tempo contingente e tempo eterno. La dimensione autentica dell'uomo, sempre in bilico tra spazio e tempo, tra relatività e assoluto, alla ricerca della propria identità, si ripropone nei versi della Giambene come recuperata innocenza e originarietà, attraverso la consapevolezza totalizzante dell'appartenenza ad un tutto universale, cullato dal ritmo alterno di albe e venti e restituiteci, in termini di alta suggestione poetica, dalla magia lirica di Renata Giambene.

Graziella Corsinovi


Senza titolo, nuvole il primo verso. Qui il timbro è più affettuoso, più colto per la presenza indicata di figure amate. Notabile la costante armonia della partecipazione dei due elementi naturali albe e venti al succedersi degli eventi con figurazioni distinte e appropriate.

Elena Celso Chetoni


 
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