Tavola apparecchiata ovvero la forza dell'amoredi Neria De Giovanni
Con Tavola apparecchiata Renata Giambene aggiunge un importante tassello al proprio mosaico poetico che la fa annoverare tra le scrittrici italiane che, pur restando fedeli ad un proprio nucleo di ispirazione, hanno saputo contemporaneamente evolvere la propria scrittura, seguendo trasformazioni e maturazioni stilistico-formali.
Questa silloge si snoda lungo un dettato colloquiale di poesia post – ermetica, allontanandosi dalle forti immagini metaforiche e sinestetiche che erano state degli esordi poetici di Renata Giambene, lodati da Villaroel e Alfonso Gatto.
Già il titolo, Tavola apparecchiata guida il lettore verso una quotidianità familiare, una frequentazione con l'ambiente più caldo e più intimo della casa, la sala da pranzo, dove il rito dei pasti si consuma in comunione con gli abitanti della famiglia, o in malinconica solitudine. Ed è questo secondo sentimento, collegato al ricordo di festa e presenze, che esplicitamente si ritrova in una poesia dove è in sintesi tutta la tragica liricità della raccolta. “Lavarsi, truccarsi, per chi?” L'io poetico si trova davanti ad una tavola apparecchiata con una tovaglia rossa come “piaceva al mio ragazzo”, bicchieri “col gambo lungo”, centro tavola con “vaso di cedringole” tutti oggetti amati da chi non c'è più e che il poeta si ostina a ripresentare davanti a sé quasi amuleti o presenze magiche che possano suscitare una miracolosa epifania, quella del figlio scomparso.
Perché Tavola apparecchiata è proprio questo, la storia di un amore grande, tra madre e figlio, che non ha paura della fisicità.
Un amore totalizzante ed allegro che ha riempito reciprocamente la vita di entrambi fino all'atroce separazione con la morte del ragazzo. Ma sbaglierebbe chi pensasse di trovare nei versi di Tavola apparecchiata lacrime e sospiri: invece, proprio nello spirito che muove la stessa titolazione è la ricostruzione “in pillole”, perché poesie brevi, di una quotidianità di sentire e progettare la cui ricostruzione è il fine ultimo di questa raccolta. Che ha per questo un qualcosa di magico, contagiando anche il lettore nella certezza di una vita che prosegue, invisibile all'occhio, ma vigile e presente al cuore.
Se la dualità madre figlio è il rapporto più evidente, essa è comunque spartita insieme ad una terza presenza altrettanta intensa e forte, ed anch'essa appartenente al mondo misterioso di chi è con noi soltanto in spirito. Vittorio, il pittore, nominato in una lirica e a più riprese in più poesie attraverso il riferimento ai suoi quadri, alle immagini frutto della sua arte che coprono le pareti della casa.
Tavola apparecchiata è una raccolta di poesie che può leggersi come la spartitura di un poemetto, in quanto poche sono le liriche con titolo e, non a caso, con data: “Marzo 1994”, “1966 alle villette di Nozzano” e “Ottobre 1993”. Queste liriche denotano il bisogno di ancorare a date una storia intima che non ha tempo, che sfida il tempo umano. Rappresentano l'urlo poetico gridato forte di chi ha certezza della vita dopo la morte.
Una tematica particolarmente intrigante e allo stesso tempo sintomatica del rapporto madre-figlio che in questi versi recupera corpo e vita, mi pare quella dedicata ai viaggi. Infatti ci sono molte poesie da cui emergono le esperienze della coppia fuori dalle normali mura domestiche: Parigi, connotata dall'immancabile tour Eiffel ma anche dalla più artistica Monna Lisa al Louvre, dal Castello di Versaille. Proprio in questa poesia, la Giambene trova una maniera sottilmenmte aristocratica e allusiva per nominare il figlio, il cui nome, a differenza di quello del marito, è ricordato soltanto come Luis in riferimento a Luigi XIV.
Londra: ed è il British Museum, le nebbie, la prostituta e la droga, la frase lapidaria e definitoria “Gli inglesi non ci amano”.
Mallorca, una vacanza al sole, le perle, il mare, la gioia della libertà.
Come ben sa il lettore di Renata Giambene anche in questo Tavola apparecchiata la voce poetica della scrittrice toscana trova spazio per un'affermazione di difesa della vita nelle saue manifestazioni più sociali ed altruistiche, contravvenendo a quello stereotipo culturale e critico che vorrebbe la poesia delle donne soltanto una sorta di autocommiserazione o ripiegamento su se stessa. Invece proprio l'esperienza drammatica della separazione dal proprio compagno e dal proprio figlio che motiva la silloge, diventa nel verso di Renata Giambene sguardo verso l'esterno, a rafforzare il messaggio positivo che l'amore può superare ogni barriera anche quella più definitoria coma la morte.
L'io narrante attraversa tutte le poesie col suo sguardo limpido di donna che fa emergere i ricordi della propria infanzia, della propria famiglia ed insieme li fonde a quelli della famiglia che non c'è più e che continua a restare presente grazie alla fiducia e alla caparbia volontà di ricordo dello stesso io poetico.
In Tavola apparecchiata ci sono dunque tre grandi protagonisti, una lei e due lui, due presenze-assenze maschili la cui fisionomia e il cui carattere riemergono proprio nella loro relazionalità con l'io poetico, unica protagonista tangibile e visibile nelle mura domestiche abitate comunque dalle altre due persone poetiche, la cui presenza è avvertita dai gatti, animali per questo magici, ed ovviamente dal cuore e dal sentimento di chi li ha amati.
La vitalità e la volontà di amare dell'io poetico è più forte di ogni distacco e di ogni apparente separatezza. Per questo la tavola resterà apparecchiata, ogni giorno, e non soltanto per una persona.
Neria De Giovanni, prefazione al volume
Rievocazioni tenere di pene ineluttabili nel loro eterno vivere che immortala l'amore. Le brevi visioni attualizzano e fanno presenti gli affetti perduti.
Elena Celso Chetoni
Tavola apparecchiata è una silloge di poesie intime che riflettono soprattutto la realtà dolorosa della vita di Renata Giambene ed è a questa realtà che la poetessa si abbandona con cuore infranto e sofferto. Scartando orpelli simbolici e metafisici, si ripiega su se stessa, ne estrae l'anima a necessario colloquio d'amore infinito. Divampa allora la realtà vissuta in passato, che è tenacemente viva al presente. Si avvera in lei un fenomeno di simbiosi poetica fra accadimenti e affetti a questi legati, per cui il momentaneo occasionale si immortalizza a contatto col sentimento. Cioè si fa eterno e vera realtà anche dopo il trapasso dei propri cari. Perciò la tavola apparecchiata non significa un sogno o un ricordo qualsiasi o un'astrazione evocata a caso, ma è il punto reale, perenne di una ideologia spirituale alimentata dall'unica insegna dell'amore eterno. Quasi tutta la raccolta si muove infatti intorno a questo nucleo essenziale, nucleo di centro a cui si ispira Renata nelle varie flessuosità delle sue poesie.
Si può pensare ad un poemetto elegiaco triste e nostalgico, o a un breve romanzo autobiografico. Tuttavia Tavola apparecchiata ha la sua particolarità: si concretizza e si armonizza nell'unitario concerto di un canto d'amore. Renata intende l'amore come certezza dell'esistenza dell'anima in terra e in cielo, quindi in virtù di tale amore sentiamo vicini i nostri cari estinti. Renata lo prova negli affetti familiari, il più toccante è quello per il figlio che non c'è più, ma lo sente e gli parla. E lei colloquia con lui in prima persona e dalla memoria fluiscono ricordi felici di ore indimenticabili. Anche altre persone care sono ricordate nei tratti salienti della loro personalità come il compagno Vittorio, il padre, la madre, ma il suo io poetico si proietta vibrante e appassionato soprattutto verso la presenza assente del figlio amato Luigi. L'anima di Renata è come invasa dai momenti gioiosi vissuti con lui e la sua gaiezza diventa trillante pur nel ricordo (pag. 47). Ma ecco guizza improvviso nella mente il fatale giorno e la poesia ha forte l'eco di un grido disperato “Chi permette lo scempio?” (pag. 57)
C'è da dire che Renata è anche poetessa del buon umore. Leggiamo qualche scenetta familiare in casa (pag. 16) e fuori nei viaggi a Parigi, a Londra, a Maiorca (pag. 17, 32, 34). Lontana dal pianto tragico e spesso formale Renata non cade nella inetta disperazione, lo vediamo in questi luoghi della sua espressività in cui le è caro abbandonarsi ai dolci ricordi. Può riviverli così ancora insieme a chi ama e che sono lì intorno a lei intorno alla Tavola apparecchiata quotidianamente pronta per loro. E' fede questa che illumina la invisibile sicurezza di Renata nella continuità dell'esistenza spirituale, al di là di ogni confine. Ed è anche messaggio d'amore di ogni confine. Ed è anche messaggio d'amore rivolto a tutti noi.
Se consideriamo la sua attività letteraria diciamo che è inesauribile. Oltre alla ampia produzione di opere pubblicate, ogni tanto si scoprono lavori inediti. Per esempio queste tre poesie, affidateci tra le molte da lei stessa scartate. Si intitolano “Passeggiando a Scanna”, “Mare vecchio”, “Custode del tempo”.
La prima è un bel quadro di paese abruzzese colto nelle linee essenziali di tradizioni antiche e di gente che vive nella semplice bontà e abitudine quotidiana. L'occhio attento della poetessa ha messo a fuoco con pochi tocchi i particolari caratteristici del luogo. La poesia è viva, animata, da gesti e voci fiorenti in pacifica atmosfera. Nella “Custode del tempo”, c'è una riscossa spirituale dopo soffi di urla. Non vale lo smarrimento sulla fangosità di vita corrotta e contaminata, ci vuole la giusta misura che vive perenne custode del tempo. Poesia concettosa, ermetica nella forma esteriore, profonda nel contenuto del pensiero.
Ancora più concettosa è “Mare vecchio”. Concisa e chiusa nelle sue immagini, la poesia comprende nascosti pensieri nel clima della solitudine e della noia. Poesia senza sorriso riflettente la deludente realtà sia dell'autrice, sia di qualsiasi uomo che “si sbraccia / per vendervi il bicchiere / del suo mare di noia”.
Elena Celso Chetoni